Riflessione per la preparazione della personale all’Ex-Carcere di Castello di Velletri

In “Corpus-et-Vulnus” parlo innanzitutto del Nulla. Sì, perché come dice Anselm Kiefer – un artista sotto i riflettori mondiali che nel mio libro tengo stretto come mentore del mio saggio di estetica e filosofia, insieme a Tàpies e Parmiggiani – da qualcosa bisogna pur partire. E nel libro, il rampino a cui mi sono aggrappato in questo Nulla è stata la matericità che fin dalle prime pennellate figurative mi ha fatto sentire che, come una tela, la nostra quotidianità è solo un’illusione.

Sempre nel FARE, nel processare il puro pigmento cromatico messo contro una cosa fisica che è la tela, dialogando con la traccia pittorica materica autonoma che vuole raccontare sé stessa, che reclama i suoi diritti, scopro che così come nella vita anche nell’arte c’è un confine e che deve essere superato, ma che non si passa senza dolore. L’attenzione iniziale, quindi, è stata concentrata a dove condurre le limitazioni che costituivano il medium della pittura: cioè la superficie piatta, la forma del supporto, le proprietà del pigmento. Quindi, affrontare il problema di che tipo di materia e quale tipo di informazioni di materia potevano transitare sulla tela per concedere una potenza vitale a questa unicità espressiva. La prima soluzione l’ho trovata nel modo più antico possibile, facendo diventare la pittura un-uno con la scultura. In questa trasformazione continua della materia sulla tela, poi arriva il gesto del taglio perché, nell’arte come nella vita, arriva la ferita che non può più rimarginarsi, ma che deve essere superata con coraggio. Il ciclo perenne di nascita-vita-morte… connaturato alla nostra umanità, nella vita, nell’arte.

Poiché, come meglio definito nel concetto di chiasma o intreccio nel dirla alla Merleau-Ponty: «…non siamo solo nel mondo ma anche del mondo». Scrivo nel libro: “Ma in questa prima fase processuale – fondamentale e intensa, rivolta alla concretezza della materia, una materia con la quale esperisco una gettatezza e una fatticità creativa continua-aperta-inconcludibile, in cui è trasfusa lo schiudersi e il ritrarsi della realtà – ad un certo punto così come lo stesso Kiefer dice: «Tutto cambia quando mi allontano dalla tela: ora ho qualcosa davanti a me, il quadro è là, e io ci sono dentro. E subito arriva la delusione: mi accorgo che qualcosa manca, ma non so che cosa. L’opera, una volta chiarito che è manchevole e non finita, può aver senso solo se messa in relazione con qualcosa d’altro, che a sua volta sia incompleto: come la storia, la natura, la storia naturale»”.                                                                                               

Ecco il punto! Solo nel FARE mi sono reso conto che la mia idea di lavoro anno dopo anno si andava a concretizzare sempre più su un PENSIERO: il corpo-e-la vulnerabilità. Uniti da un trattino.

Mi domando perché sono anelli forti dell’essenza dell’umanità? Mi domando perché rappresentano l’energia che ci ha fatto evolvere nel corso dei secoli? Mi domando anche perché questi aspetti nella società moderna sono spesso nascosti o emarginati?

E così che arrivo al titolo del libro pubblicato in omaggio a Tàpies, Kiefer e Parmiggiani. Perché il mio personale linguaggio artistico si è sviluppato attraverso la sperimentazione e l’ispirazione di questi grandi maestri. La mia pratica artistica è fortemente influenzata dalla tradizione dell’arte informale e concettuale, in cui la trasformazione irreversibile e continua è parte integrante del processo creativo. Scrivendo il libro mi arriva l’illuminazione che per me è importante liberare il corpo e la vulnerabilità nell’arte! Perché questo processare il corpo e la vulnerabilità, nel mio modo di vedere le cose, attraverso il lavoro sulla tela mira a far emergere cosa nella realtà si nasconde dietro al mondo-in-funzione, così ben levigato!

E soprattutto a disimparare le molteplici gabbie in cui spesso siamo intrappolati.

«Corpus-et-Vulnus», quindi, come ricerca di una sintesi alchemica esistenziale che fonde l’aspetto fisico e quello spirituale. In modo visivo, cerco di svelare e autenticare questa unione attraverso una combinazione di pittura-scultura. Non si tratta solo dei volumi aptici innescati nella mia pittura. Ma ho smesso, insieme a tante altre cose, anche il chiodo della pittura di essere attaccato alla parete di una galleria e ho fatto scendere i miei dispositivi a terra. E per realizzare la mia visione artistica li ho chiamati OAC Organismi Artistici Comunicanti, proprio perché con questo nome voglio alimentare un’idea dell’arte come processo legato strettamente alla vita ed a una natura del tutto collaborativa. Attraverso la creazione di eventi espositivi con matrice performativa  – ben rivelata dalla preziosa prefazione dello storico e critico d’arte Franco Speroni – e l’utilizzo di spazi unici come l’ex carcere di Velletri, dove realizzerò nei prossimi mesi i nuovi progetti del Movimento VulneraTe, ho cercato di creare una relazione più vera tra la mia arte, i partecipanti e l’ambiente circostante, dove tutto il processo di relazioni che ne scaturisce possa essere un valore di verità scambiabile.

Dopo FARE e PENSARE. Arriviamo alla terza parola evidenziata nel libro: ESSERE. Il mio obiettivo è creare una connessione profonda tra l’artista, il pubblico, la luce, l’olfatto e gli spazi espositivi, al fine di creare un nuovo punto di vista che offra nuove possibilità al nostro quotidiano. In questo senso, in uno spazio dell’800 che 40 anni fa è stato abbandonato e oggi è ibernato nelle condizioni immutate in cui è stato lasciato, cerco di superare la definizione site-specific, oppure site-sensitive, per parlare invece di site-coexistence, cioè il tentativo di creare un dialogo tra più esistenze, non un confronto ma una relazione, un’esperienza più incisiva, anche se limitata al tempo e allo spazio dell’evento. E la co-esistenza – parafrasando Jean-Luc Nancy nella scrittura del Corpus – è un toccarsi al bordo, al confine per riconoscere nello stesso momento sé e l’altro. Perché solo insieme in questo spazio, tra la proposta dell’artista e alla luce del partecipante, si crea un nuovo punto di vista e un plusvalore culturale che travalica anche la qualità stessa dell’opera. Questa per me è la contemporaneità in cui voglio impegnarmi, questo è il valore dell’arte che voglio comunicare; soprattutto nella congiuntura epocale terribilmente importante che stiamo attraversando.

Come conclude Claudio Parmiggiani: “Questo mio lavoro non significa niente ma questo niente significa tutto” per me.