L’impegno alla “Sicilitudine”

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Nato all’arte nel 2019, Sergio Mario Illuminato ha cominciato a percorrere un processo che la storia dell’arte stessa ha già condiviso con l’uomo. Come il bambino diventa adulto attraverso il passaggio dalla tattilità, dalla conoscenza immersiva nell’ambiente, dalla conoscenza topologica; per poi assumere, attraverso un processo di scolarizzazione, una conoscenza più astratta e simbolica; così il suo processo artistico e percettivo parte da un nucleo di sensibilità sensoriale-tattile-immersiva – che è stata la sua bottega informale – attorno a cui, attraverso gli studi all’Accademia di Belle Arti, ha coltivato la conoscenza, le domande della contemporaneità del gesto, del segno e del senso della sua arte.

Ed è ora che il suo sguardo fissa la relazione tra l’artefatto e la storia personale, la sua origine. Per individuare, a mano a mano sempre più evidente, un impegno a portare dentro i suoi lavori non la Sicilia, ma la “Sicilitudine”, cioè un sentimento, un atteggiamento, un modo di sentire che si articola su tutta una serie di concetti che dovrebbero sintetizzare i valori e lo spirito siciliano. Sto parlando dei rapporti con i suoi padri nobili: Pirandello, Sciascia, Verga, Vittorini… con i quali ha avuto una relazione difficile, insopportabile, di fuga, ma poi si ritorna a riconoscerli e ad amarli. In un certo senso a somigliarli.

Trasferitosi a Roma giovanissimo, liberarsi dall’opprimente irrazionalismo pirandelliano, dei Malavoglia di Verga, significava per lui liberarsi della forsennata realtà siciliana in cui era stato formato. Fin dall’inizio lo sentiva come un obbligo della coscienza e poi perché sapeva trasformare il pretesto dell’impegno culturale, della sollecitazione sociale di Roma, in un racconto di vita come atto di ottimismo rispetto ad una realtà siciliana terribile, perturbante, intorno alla parola mafia a cui rifiutava ogni accostamento.

Ma quest’attenzione illuminista con il suo approdo all’arte era destinato a cedere il passo ad una vera e propria deflagrazione ad un’estetica decadentista. Questo coincide, per esempio, con lo specchiarsi nella dialettica di “Uno, nessuno, centomila” per citare il titolo di un famoso romanzo. In questo doloroso dibattito interiore doveva affrontare i miti siciliani di impenetrabilità, coesione, silenzio. E soprattutto affrontare il tema del fallimento, del potere (senza luce, cupo, con nessuna possibilità di riformarlo), e della profonda sfiducia verso la storia e le sue illusioni.

Partito per cancellare le sue radici siciliane, alla fine – lo deve ammettere – non ha bisogno di portare il mondo nel suo processo artistico, ma indagare l’enigma della “Sicilitudine” nel mondo.