VULNERABILITÀ

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Ma facciamo un passo avanti verso le ragioni antropologiche della ricerca. Oltre al corpo, ciò che contraddistingue l’individuo e lo rende incredibilmente umano, emotivo e consapevole di sé e del mondo circostante, al di là dell’impulso di sopravvivenza, è la sua intrinseca VULNERABILITÀ.
L’essere umano è costitutivamente vulnerabile. Non solo dal punto di vista biologico o psicologico, ma anche intellettualmente e moralmente vulnerabile, nella sua natura più intima. Ed è proprio questa vulnerabilità che, paradossalmente, rende l’individuo umano estremamente forte e resiliente, capace di generare qualità, benessere e sicurezza nella propria esistenza a livelli sempre più elevati.
Un segno promettente dell’aumento di questa sensibilità, che introduce il tema della vulnerabilità nella prospettiva di una concezione più avanzata della dignità umana e del bene comune, può essere trovato nella Dichiarazione di Barcellona del 1998, redatta con la collaborazione di ventidue esperti provenienti da diverse discipline nel campo della bioetica, su iniziativa della Commissione Europea e sotto la coordinazione del Centre for Ethics and Law di Copenhagen.
In questo testo, non solo la vulnerabilità viene menzionata per la prima volta come parte integrante dei principi regolatori della bioetica universale (autonomia, integrità, dignità, vulnerabilità), ma viene anche esplicitamente collegata al riconoscimento della finitezza costitutiva della condizione umana e all’urgente richiamo alla responsabilità morale della comunità umana.
Il segnale proveniente da questa integrazione, che richiede una certa audacia propositiva, è sicuramente incoraggiante. È incoraggiante perché, nel pensare al presente, si tende sempre di più ad associare il concetto di vulnerabilità a qualcosa di estremamente debole e poco resistente. Tuttavia, la fragilità va ben oltre il semplice contrario di forte e indistruttibile. La fragilità è la capacità di essere vulnerabili e sensibili al di là di ogni misura: significa comprendere la molteplicità delle emozioni, delle scelte e delle tensioni a cui l’uomo si confronta quotidianamente e sentire tutto ciò sulla propria pelle.
L’uomo non è fatto di acciaio, non è indistruttibile o impenetrabile, ma è di vetro: vacilla e può rompersi, scheggiarsi, ferirsi e rovinarsi un po’. Spesso non siamo pronti ad ammettere la fragilità delle cose e di noi stessi e preferiamo tenerla nascosta, perché siamo spinti dalla vita quotidiana a associarla a una concezione negativa, come fattori di degrado personale e comunitario, da emarginare e curare.
Questa società, nonostante tutti i suoi innegabili progressi, fallisce nella sfida della vulnerabilità: non solo perché non riesce a generare risorse di significato per una vita che appare imperfetta e fallibile, ma anche perché si dimostra inadeguata nella cura e nella protezione delle persone più fragili e deboli, come se fossero inevitabilmente prive di dignità e ragionevolmente sacrificabili.
Il recente passaggio attraverso la sconvolgente pandemia di un virus sostanzialmente sconosciuto ha dimostrato, al di là di ogni previsione, quanto disorientamento, incertezza e impotenza le nostre società civili, anche le più tecnologicamente ed economicamente avanzate, hanno mostrato in poche settimane, facendo sprofondare il nostro delirio di onnipotenza.
Questa consapevolezza rappresenta forse la parte migliore, al momento, della nuova sensibilità antropologica che sta maturando in questo confuso e contraddittorio cambiamento d’epoca. La coscienza collettiva del profilo affatto speciale della vulnerabilità costitutiva dell’essere umano – la sua inclinazione a essere ferito anche nell’anima dall’oppressione altrui e dalla propria impotenza – è un aspetto nuovo della nostra evoluzione culturale.
Tutto lascia pensare che la necessaria riscoperta della vulnerabilità umana, avviata dalla riflessione antropologica e imposta dal contesto epocale, debba svolgere un ruolo centrale, e non marginale o accidentale, nella ricostruzione di un progetto umanistico e civile – economico, sociale, politico, culturale – all’altezza della nostra disposizione intrinseca ad essere umiliati e persino travolti nella nostra dignità di esseri umani.

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