Daniele Luchetti, regista

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)
a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera

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DANIELE LUCCHETTI, regista

Non ho mai girato a Roma, ad eccezione di alcune scene del film II portaborse. Credo che Roma sia la città italiana dove si nutre non solo indifferenza per il lavoro del cinema, ma anche un po’ di disprezzo. Altrove la gente si avvicina, è curiosa, vuole sapere e darti una mano; mentre Roma è talmente abituata al cinema che lo respinge automaticamente come un ulteriore complicazione del quotidiano, già abbastanza compromesso dal traffico.
A Roma, poi, dovunque piazzi la macchina da presa devi lavorare molto per ottenere un’immagine interessante ed eliminare quella quotidianità che ogni giorno viene diffusa dalla televisione.
Il mio legame con Roma rimane, comunque, assoluto e totale, perché non solo sono romano di molte generazioni, ma, soprattutto perché, per hobby, studio Roma da un punto di vista storico ed artistico, credo di essere una delle migliori guide possibili della città.
Mantengo così il mio legame con la Roma degli anni passati, quella Roma che ormai appartiene solo alla nostra immaginazione.
Roma assomiglia sempre più ad una qualsiasi città italiana: ho la netta sensazione che sia diventata una gran periferia appiattita culturalmente e paesaggisticamente. Certo viene ancora definita “la città del cinema” il polo magnetico che attira tutti quelli che vogliono farlo, ma a Roma probabilmente i registi di tutta Italia vengono solo a cercare i soldi per i loro film.
Vent’anni fa invece c’era, la sensazione che Roma, più della stessa Cinecittà, fosse un teatro di posa dove chiese e monumenti erano quinte cinematografiche, la città fotogenica per eccellenza al cui interno era possibile fare cinema.
Dieci anni fa Cinecittà, quando l’ho frequentata da studente, era proprio un disastro, era una specie di cimitero degli elefanti, oggi che il cinema italiano va un po’ meglio sembra resuscitata, e poi c’è la pubblicità che tiene gli studi in attività.
Certo Cinecittà come nucleo promozionale dei film esiste solo nelle nostre menti, la sua fisionomia semplicemente di “servizio”, tra l’altro anche appesantito dalla burocrazia, non alimenta l’idea che i registi sognano a proposito della “città del cinema”.Comunque, Cinecittà per me continua ad essere un luogo mitico. La prima volta che andai a Cinecittà fu grazie ad una mia compagna di liceo, il cui padre, fortunata ragazza, lavorava lì; e mi sembrò una specie di Disneyland.Tornando là tempo dopo provai una sensazione decisamente diversa: c’erano brandelli di scenografia dei film di Fellini, abbandonati da anni, in un paesaggio squallidamente irreale si aggiravano cani rognosi lungo strade deserte cercando di mordere qualsiasi cosa, anche i passanti, e le rarissime presenze umane, quando capitava d’incontrarne, sembravano volersi nascondere dietro gli alberi dei viali e nei teatri ci pioveva dentro: sembrava una città fantasma.
Fino all’83 è stato un posto abbandonato a sé stesso, noi che facevamo la scuola del cinema, organizzata dalla Gaumont al teatro 16, bivaccavamo fuori dai teatri mangiando panini, e dentro ai teatri organizzavamo le feste. Poi lentamente il clima è cambiato. Cinecittà ha iniziato a riconvertirsi, a vendere gran parte dei suoi terreni, quelli dove noi studenti avevamo pensato di costituire una cooperativa agricola per allevare cavalli. Hanno alzato improvvisamente un muro oltre il quale hanno costruito condomini.
Ho un po’ di nostalgia di quegli anni di crisi, adesso vado a Cinecittà e la ritrovo verniciata, efficiente, c’è lavoro, ma è diversa. Così come è diverso lo stesso ambiente dcl cinema romano. Non è più quel luogo di scambio di idee con persone che fanno il tuo stesso mestiere, che possono condividere con te dei dubbi, delle tensioni, delle aspirazioni.
Ma al cinema non ci vanno più le famiglie, assistere a delle storie, affezionarsi a dei personaggi, ormai è un desiderio appagato dalla televisione. Vent’anni fa si andava al cinema di periferia a vedere un film d’amore, oggi la voglia di romanticismo ce la propone la televisione ad ogni ora. È come se fossimo sazi di storie, e di finzioni; e allora per molti il cinema diventa un di più, un piccolo lusso, oggi andare al cinema non è un desiderio di film, è il desiderio di stare insieme.
Il pubblico più numeroso, giovane anagraficamente, la sera decide per il cinema o la pizzeria indifferentemente, la fabbrica dei sogni non interessa ormai che una piccola fetta di appassionati.
Il film, oggi, è sempre più vissuto privatamente, attraverso video-cassette, satelliti, video-dischi; diminuendo così il suo impatto sociale; a meno che, vedi il caso del portaborse, si renda improvvisamente, per motivi anche casuali, interprete di una volontà popolare, allora, in quei casi, il cinema può tornare ad essere per un momento un grande strumento di aggregazione attorno ad una volontà collettiva, e richiamare la gente a vedere quel film; prima era sempre così, per tutti i film. Avverto sempre più la sensazione di vivere in una lontana provincia dell’impero dove non arrivano le cose che passano e si fermano a Londra, Berlino, Parigi.
A Roma tutto è tranquillo, cosa che va bene quando ci si deve concentrare e stare nella propria casa a lavorare, ma va male quando si vogliono sentire e capire gli umori del mondo. Io ho degli amici che vengono a Roma quando devono scrivere qualcosa perché qui non c’è nulla che li possa distrarre a differenza delle grandi città dove abitano.
Solo per un momento negli anni 70, con le amministrazioni di sinistra si è cercato di dare una spinta culturale alla città, adesso siamo ripiombati in atteggiamenti molto provinciali.
lo mi auguro che attraverso l’immigrazione nascano nuclei culturali capaci di dare un nuovo carattere alla città, spero che avvenga qualcosa che riesca a smontare l’attuale fisionomia di Roma sempre più simile ad un grande ufficio, un grande ministero che presta male anche quei servizi che la gente viene a chiedere.
Tornando a me, mi sento fondamentalmente un artigiano nel mio lavoro, continuando così, con altri mezzi; la tradizione di mio nonno che era pittore e di mio padre scultore. Non c’è nulla di più artigianale del lavoro del cinema: si fa con le proprie mani e con poca gente. in Italia come in Europa il cinema non ha mai smesso la sua anima artigianale di vera espressione artistica in cerca di intuito ed emozioni personali per la costruzione di un film, a differenza dei prodotti cinematografici americani che soddisfano ricerche di mercato.
I miei film, normalmente, nascono dall’osservazione della realtà o di alcuni tipi umani, c’è sempre una storia che mi colpisce, anche se questo non è una regola fissa; sicuramente per un film devo avere la sensazione di doverlo fare per forza, “oppure crepo”, come diceva Truffat; quindi, ho un rapporto istintivo, difficilmente spiegabile, con le storie che racconto. Utilizzo il cinema anche come mezzo di conoscenza, come uno strumento di esplorazione che mi permette di conoscere realtà che normalmente rimangono estranee; ecco se dovessi raccontare Roma, le cercherei un lontano dentro, qualcosa di non immediatamente visibile da chi passeggia per le sue strade.
Certamente ripongo nel lavoro del cinema tutte le mie speranze segrete, il perché lo faccio è segreto anche a me stesso. Si inizia per grande passione, si va avanti non si sa perché e poi ci si ritrova a considerare che è l’unica cosa che si è capace di fare.
Una volta ho incontrato un grande vecchio direttore della fotografia che mi ha detto: “Rossellini al cinema non ci credeva più, ha scoperto che non valeva la pena di crederci”. Ecco, io non sono in quella fase, ma ho superato anche la fase giovanile dei grandi valori, dei grandi ideali espressi attraverso il cinema. La voglia di fare cinema è qualcosa che cattura immotivatamente, come una grande mano che ti acchiappa. E allora non puoi che sperare di farcela e se per caso ce la fai devi ritenerti davvero fortunato, ma comunque le sofferenze saranno molte.

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