Giuseppe Tornatore, regista – sceneggiatore

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)
a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera

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GIUSEPPE TORNATONE, regista-sceneggiatore

Il cinema è il “Mito” che ho inseguito fin da bambino, mi è piaciuto per gioco e andando avanti ha assunto dentro di me intenti sempre più decisi. Arrivai a pensare di poter fare cinema rimanendo in Sicilia, Roma non mi interessava particolarmente, e per di più, nel caso avessi voluto trasferirmi, la mia famiglia non aveva i mezzi per mantenermi agli studi in un’altra città.
Quando, rarissimamente, veniva in Sicilia una troupe cinematografica, mi intrufolavo e cercavo di incontrare il regista. per chiedergli: “Vorrei fare del cinema cosa mi consiglia?” Domanda che oggi mi sento spesso rivolgere e capisco l’imbarazzo di chi allora mi guardava come per dire: “Che gli rispondo?”… Ma qualcuno provò a spiegarmi che il cinema è un mestiere molto difficile, soprattutto lontano da Roma, perché è là che si fa.
Cominciai allora a cercare qualcosa che fosse pretesto e sostegno dell’andare a Roma; la trovai nell’idea di frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Sognavo il CSC, era il luogo più adatto, infatti “lì si sta tutto il giorno – mi dicevo, dando ingenuamente per scontato che avrei superato l’esame – si mangia e danno anche un piccolo rimborso mensile, è perfetto!” Ma frattanto il CSC andò in crisi e fu chiuso e non si sapeva se e quando avrebbe ripreso a funzionare.
Finalmente riaprì nel ’76, con un piano di studio non più quinquennale, ma biennale; il ’76 coincideva con l’anno dei miei esami di maturità, allora decisi. di agire. Prima mossa: riuscire a fare il servizio militare a Roma; e nonostante avessi avuto una diversa destinazione, tanto mi adoperai che ottenni il trasferimento. La città mi faceva un po’ paura, non la conoscevo: quale autobus prendere? Come spostarmi? Avevo sempre vissuto in un piccolo paese di cui conoscevo tutti gli abitanti uno per uno, e l’idea di andare in una grandissima città dove non conoscevo nessuno era difficile da accettare. Mi consolai pensando che il periodo del servizio di leva mi sarebbe servito a prendere confidenza con Roma e una volta finito ci sarebbe stato ad accogliermi il CSC. Ma le mie preoccupazioni si dimostrarono vane. Non potei attuare la seconda parte del piano poiché, nonostante avesse ripreso a funzionare, il CSC perdurava nella crisi e così i bienni non funzionavano accavallati, ma un corso succedeva all’altro. Insomma, per un altro anno almeno ero fuori. Mi sentii molto scoraggiato, e finito il servizio militare tornai giù.
Dimenticato il CSC, ripresi a fare i miei documentari con la cooperativa di cui ero Presidente. Qualche volta mi accadde di girarne alcuni in 16 mm e di fare l’edizione a Roma.
La prima volta che andai a Cinecittà, fu per montare un documentario girato a Palermo sulla cartografia europea nel diciassettesimo secolo. Ero emozionato, avevo nella moviola accanto a me Bellocchio, che stava montando “Gli occhi e la bocca”, nell’altra Zeffirelli, di fronte Dino Risi che montava Dagohert.
In qualche modo il contatto con Roma non era completamente perduto! Ma l’occasione vera si presentò quando Ferrara venne a Palermo per il film su Dalla Chiesa. Alcuni suoi amici gli avevano consigliato di contattarmi perché potevo essere la persona adatta a risolvere quei tanti piccoli problemi di una produzione in trasferta. Ci incontrammo, ci accordammo e così iniziò la mia collaborazione al film di cui, per una serie di circostanze davvero favorevoli, finii col seguirne tutto l’iter.
Fu una straordinaria palestra: cominciando per scommessa, mi ritrovai ad essere collaboratore alla sceneggiatura e, in qualità di Presidente della cooperativa, produttore esecutivo del film. Conobbi Lombardo della Titanus, io in veste di produttore e lui in veste di distributore. Per di più il film a causa del maltempo sforò di tre settimane, eravamo a corto di soldi, e Ferrara decise di organizzare una seconda unità chiedendomi di dirigerla. Successivamente cercai di avere altri contatti con Lombardo, il lavoro era andato bene ed io vedevo la possibilità di farmi avanti.
Con il ricavato del film di Ferrara la mia cooperativa comprò i diritti di sfruttamento del libro «Il camorrista”. Era decisamente arrivato il momento di trasferirmi a Roma; mi misi a scrivere la sceneggiatura del romanzo e la presentai a Lombardo che accettò di produrre il film, ma solo a patto che fossi riuscito a coinvolgere Ben Gazzarra; ed io ci riuscii. Se tutto non avesse così miracolosamente coinciso nella combinazione dei fatti che io cercavo di pilotare, l’avventura romana non so quando e se sarebbe potuta cominciare.
Roma è una città bellissima, ma non è il luogo più adatto per chi deve fare un lavoro che costringe ad alternare lunghi periodi in cui si è sempre in giro e lunghissimi periodi in cui si è chiusi in casa a pensare cosa fare. Perché appena spunta il sole, il sabato e la domenica o quando arrivano le feste, ti senti l’unico scemo rimasto in una città dalla quale la gente fugge tutte le volte che può. Però un vantaggio c’è: la facilità con cui riesco ad andare al cinema nelle brevi pause che mi concedo durante quei periodi di super lavoro; ogni volta non posso fare a meno di stupirmi del fatto che nel giro di venti minuti, senza neanche, il problema della macchina, apro il giornale, scelgo il film da vedere, e passo dalla scrivania alla poltrona del cinema, è fantastico!
Io la vivo tutto sommato bene Roma. Certo è afflitta dal grave problema del traffico, ricordo che quando sono venuto a vivere in centro perdevo ore tutti i giorni alla ricerca di un parcheggio, al punto di decidermi a vendere l’automobile e constatare che effettivamente da quel momento le mie giornate si erano notevolmente allungate.
Devo dire che l’accoglienza che Roma mi ha dato, io non l’ho ricambiata fino in fondo, non sono stato un ospite molto riconoscente, è città che conosco poco dal punto di vista delle sue ricchezze storiche, artistiche, io abito a 60 mt. dai Musei Vaticani e, me ne vergogno, non ci sono ancora stato.
A Roma ho girato abbastanza spesso e anche scene piuttosto complesse e posso dire che non ho trovato particolari difficoltà, tranne che nell’atteggiamento della gente, ormai stanca di troupes del cinema che bloccarlo, rovinano, sporcano, distruggono; e devo ammettere che non hanno tutti i torti a lamentarsi. Però non è la città più difficile, anzi se succede un incidente tecnico, tutto è a portata di mano, se si rompe la macchina da presa, ti fermi al massimo mezz’ora, questo fuori non può accadere. E c’è di più, spesso capita di dover girare dei raccordi e a Roma trovi tutto: dei pezzi di Palermo, di Napoli, di Torino.
Fino a vent’anni fa alle porte della città, nella prateria di Oriolo Romano e di Manziana sono stati girati centinaia di western.
Ogni mio film finora è nato da uno stato d’animo. Fa eccezione il “Camorrista”, voluto più dal desiderio di esordire con un film oggettivo, non soggettivo. In quegli anni, infatti, la maggior parte degli esordi erano tutti, come si diceva, film fatti sul proprio ombelico e spesso rimanevano opere prime ed ultime.
Naturalmente, questo pericolo mi terrorizzava, quindi decisi di fare un film che mi interessasse, mi appassionasse, ma che fosse altro da me. Già ai tempi del “Camorrista” avevo in testa il progetto di “Cinema Paradiso”, sognavo di realizzarlo dopo tanti film, volevo produrlo oltre a dirigerlo, doveva essere il film fatto con le mani completamente libere ed il progetto viveva in me sotto forma di sogni e di appunti.
Il “Camorrista” aveva ottenuto successo e buon apprezzamento della. critica, ma io non riuscivo a mettere in piedi il secondo film, nonostante fossi sostenuto da un ottimo contrattò che prevedeva la realizzazione di tre film in cinque anni.
Per circa due anni non ho girato un metro di pellicola e mi sentivo morire, avevo scritto tre storie, ma ogni volta nella riunione definitiva di sceneggiatura mi si diceva: “secondo. lei perché una persona, un qualunque spettatore dovrebbe lasciare la sua casa, prendere l’automobile, spendere diecimila lire di benzina, raggiungere il centro di Roma, cercare il posteggio, entrare al cinema, pagare settemila lire ed andare a vedere questa storia, per quale motivo?” Ed io rispondevo: “Beh, non ce ne. Ero totalmente scoraggiato, in quegli anni si viveva un momento di stallo totale; incassavano i film come “Pierino, la dottoressa e la professoressa” … Mi sentivo frastornato, impotente, ero riuscito a raggiungere, il mio sogno e puff non potevo più lavorare. Con questo stato d’animo andai all’ennesima riunione per discutere la dodicesima versione della sceneggiatura. A fine riunione capii che non avremmo mai fatto il film. Ricordo che tornai a casa, tolsi tutto dal tavolo, mi misi seduto a pensare e sentii salire da dentro la sensazione che poi ha sporcato o colorato, a seconda del punto di vista “Cinema Paradiso”.
Tutti dicono che il cinema è finito? Ecco cosa devo fare: un film sul cinema. Ho preso tutti gli appunti, rassegnandomi a non produrlo da me stesso, ed ho cominciato a scrivere.
“Stanno tutti bene” è nato da un altro grave stato d’anima, l’ho scritto nel periodo in cui vivevo tutta la fatica di “Cinema Paradiso” come un grande fallimento.
Prima della resurrezione di Cannes passarono sette-otto mesi di “morte civile”, io mi sentivo fallito perché quello era un film che mi coinvolgeva fino alle budella, cominciai a pensare che avessero ragione gli altri nel dire che era un film sbagliato. Stavo male. Quando qualcuno mi chiamava chiedendomi “come stai?” rispondevo “bene!”. Ma io stavo malissimo. E tutte le volte che mi capitava di chiamare qualcuno e chiedere “come stai?” tutti rispondevano “bene!”. Fu così che mi venne il sospetto che in questa società in cui se viene recuperato un punto solo di inflazione sono tutti contenti perché sembra sia nato un nuovo paese, viva il futuro; insomma, un paese basato sulle apparenze, sul salotto, sulla gente che va in televisione, addirittura su un’immagine falsa della gente continuamente appiccicata alla televisione, che dietro tutto questo nascondevano. altro.
Da questo stato d’animo, dalla mia stessa incapacità di riuscire a dire “sto male!”, nacque “Stanno tutti bene”; che, a differenza di quello che hanno capito certi illustri uomini di cinema, era un titolo chiaramente retorico.
Dopo questo difficile cammino devo ammettere che nel momento in cui ho ricevuto l’Oscar, credo di aver pensato solo a me; ero emozionatissimo, avevo avuto ragione a portare avanti quell’odissea ad essere stato determinato. Comunque, già la vittoria di Cannes aveva rappresentato una vera e propria resurrezione. Attualmente sto vivendo un altro di quei tormentati periodi. di riflessione, di messa a punto interiore di un nuovo progetto; il punto di partenza dei miei racconti è sempre un momento di profonda sedimentazione di quello che sta avvenendo nel mio animo. Non sono sicuro che sia giusto così, però non riesco a fare altrimenti, non riesco a programmare. Mi piacerebbe sdrammatizzare, affrancare la nascita di ogni mio film da questa specie di tribolazione, Ma non ci riesco, forse perché ho bisogno di instaurare un rapporto con il film talmente forte, talmente intimo, che, nel caso dovesse essere un fiasco, non potrei comunque rinnegarlo o odiarlo “Stanno tutti bene” non è stato, almeno in Italia, il successo che avevamo pensato; eppure, a quel film voglio bene e forse più che agli altri. Con le mie opere ho il rapporto di un artigiano, anche se riconosco che oggi, un buon artigiano deve comunque conoscere la logica dell’imprenditore; non seguirla ma conoscerla. E nei periodi in cui sparisco perché concentrato su una nuova idea le domande che mi vengono solitamente rivolte sono: ‘”Ma il suo prossimò film si svolge in Sicilia? Parla dei sentimenti, della nostalgia?” Sicilia, sentimenti, nostalgia. Io rispondo che semmai in futuro penserò ad un film che si svolge sulla luna, un film di fantascienza, la Sicilia sarà comunque dentro poiché tutto ciò che accade ad ognuno nei primi vent’anni di vita, lo accompagnerà per sempre, non ne riconoscerà la forma, ma ne costituirà il sottotesto, nel modo di ragionare, nei comportamenti. Certo si cambia, si cresce, ci si trasforma, si approfondisce il proprio modo di pensare, di capire e di farsi capire, di esprimersi, ma il DNA rimarrà sempre uguale.
Una cosa che ho ereditato, di cui sono fiero e che mi porto dentro con piacere, è l’avere imparato da questa terra che non sempre le cose sono così vere come appaiono nella loro schematica rappresentazione, non necessariamente il tuo nemico ha totalmente torto e chi ti è amico ha totalmente ragione, dalla mia terra ho imparato a riconoscere la coesistenza del bene e del male, talvolta le due cose sono l’una dentro l’altra. Quello che non avrei voluto ereditare dalla mia terra? Più di una cosa. La più importante forse è che sono troppo critico con me stesso e diffidente nei confronti degli altri, non essere diffidenti è sbagliato, ma se lo fossi stato un po’ meno sarebbe stato meglio per me e soprattutto la mia eccessiva diffidenza non avrebbe fatto male agli altri.
Ma torniamo a parlare di Roma e del cinema, a proposito di Cinecittà posso dire che è un importante polo produttivo, anche se si porta addosso troppi difetti della struttura pubblica. Ritengo che non solo Roma ma l’Italia non difende e non ha mai difeso il cinema, il perché non so dirlo. Forse perché il grande cinema italiano è stato storicamente un cinema di opposizione, ma questa spiegazione mi sembra troppo schematica e credo che la responsabilità sia non solo di chi ha governato, ma anche di quanti hanno avuto la puzza sotto il naso nei confronti di quei film che avevano la sola ma importante funzione di sostenere l’industria cinematografica. Comunque, qualunque sia la causa, il cinema è rimasto da sempre affidato all’iniziativa individuale, e quando è stato grande è avvenuto grazie a quelli che da soli si sono fatti i film: De Sica e Rossellini i loro capolavori li hanno difesi con le unghie, i soldi li hanno cercati metro di pellicola per metro di pellicola; ed oggi le cose non sono cambiate, i giovani registi devono fare tutto da soli. Quale scuola, quale legge li ha aiutati di certo non l’art. 28. Se questa nuova generazione ha un futuro, è solo perché si è inventata tutto da sola, ed è così da sempre, ciascuno ha dovuto agire senza avere alle spalle un paese che lo difendesse. Non so quante volte è stata interrotta la lavorazione di un film straordinario come “Ladro di bambini” che adesso tutti applaudono; non so quanto tempo ha impiegato Gianni Amelio per trovare chi gli finanziasse la sceneggiatura. Questo è il cinema italiano, cd ora si vede in televisione la sfilata delle persone incravattate che dicono: siamo stati noi a volere “Ladro di bambini”. Un esempio opposto è la Francia, paese che difende il cinema. Per appurarlo basta entrare in una qualunque sala e si ha subito la sensazione che lì il cinema è ritenuto qualcosa di più importante di un semplice passatempo, ma la Francia è comunque un paese in cui, a differenza del nostro, c’è più rispetto per la cultura in genere.
L’Italia è un paese che non ha memoria. Registi straordinari come Pietrangeli, Germi, Zurlini, sono sconosciuti al pubblico medio di oggi, i giovani tra i 16 e i 25 anni non sanno che sono esistiti! In America Bílly Wilder parla di Pietro Germi come del più grande regista che conosca; altri, e parlo di Coppola, Scorsese, dicono di aver studiato i film di Rosi per imparare a fare cinema, tutti i più grossi registi americani fanno continuamente riferimento al cinema italiano. L’Italia è un paese in cui non si fa nulla perché i giovani conoscano la storia del nostro cinema.
Tra le varie categorie del cinema credo che il pubblico sia la più evoluta; a parte qualche bufala natalizia, oggi è molto più difficile rapinare la gente con un pessimo film, accade ancora, ma prima accadeva con molti film all’anno. Oggi rispetto al pubblico il cinema di qualità ha un rapporto molto più forte, i film di Wenders vent’anni fa in Italia neanche uscivano; oggi escono, la gente ci va e sono anche dei grandi incassi. C’è un miglioramento, nonostante la televisione tenti di diseducare continuamente, nonostante le sale respingono e sembrino dire state a casa perché tanto qua non si vede e non si sente niente. Premesso questo, un difetto del pubblico di oggi è che parla al cinema, porta con sé i telefonini; salvo rare eccezioni non mi capita mai di entrare, sedermi e vedere il film tutto dallo stesso posto; la gente disturba, parla come fosse a casa a guardare la televisione.
Tornando a Roma credo che una sua peculiarità possa essere la pigrizia; ricca di cultura ma pigra. Avrebbe da insegnare tante cose, ma se non hai interesse non ti impone di conoscerle, e a me in fondo questa indifferenza piace. Ma purtroppo è pigra anche nel favorire occasioni di scambio tra chi si occupa di cultura. Per quanto mi riguarda, ma fa parte di me, del mio carattere non ho amore per i cenacoli, gli scambi culturali nei caffè di moda; ho degli amici che si occupano di cinema ma in genere si tratta di colleghi più grandi di me; potenzialmente mi è più facile avere rapporti di conoscenza con coetanei che svolgono nella cultura e nell’arte un ruolo estraneo al cinema; forse, perché il cinema italiano è diventato una cosa talmente piccola, un piccolo cortile in cui regna il pettegolezzo, in cui scattano tutti i meccanismi del cortile del paese. E allora, che scambi vuoi avere? Esiste un nuovo cinema italiano ma non esiste una nuova linea ideologica, in questo momento i giornali suggeriscono che funziona l’impegno civile e tutti si dicono impegnati civilmente senza sapere cosa è stato e cosa è veramente l’impegno civile nel cinema. L’attuale impegno civile del cinema italiano io lo paragono al fare del buon ciclostilaggio. Una volta il cinema civilmente impegnato cambiava le coscienze, accresceva la conoscenza della gente, ne determinava e ne modificava i comportamenti collettivi; oggi al massimo si rinnova quella indignazione che la gente prova tutte le sere accendendo il televisore. Ci sono film stranieri che la gente va a vedere non per assistenzialismo, ma attratta dalla qualità, è vero cinema che sa coinvolgere ed informare; invece, il pubblico va a vedere i film italiani spacciati per impegno civile quasi per dare una mano, ben sapendo che non aggiungeranno nulla alla pubblica conoscenza dei fatti narrati e tantomeno saranno prodotti cinematograficamente ben confezionati.
Nel nuovo cinema italiano c’è però una valenza positiva ed è la voglia di ritrovare un filo diretto tra cinema ed esigenze vere della gente, da questo punto di vista è un cinema sano, ma siamo ancora lontani dall’avere ottenuto un buon risultato. Questo è il limite del neo-neorealismo. Pessima definizione. Chi l’ha inventata non ha reso un buon servizio né al neorealismo né ai registi italiani che credono di aver scoperto nel samarcandismo il nuovo impegno civile, Samarcanda è una cosa, l’impegno civile un’altra. Nel lavoro non ripongo particolari speranze, lo dico sinceramente. Mi auguro solo che riesca a riempire il mio tempo. Il fatto che la gente vada a vedere i miei film mi rende più facile farne altri, ed io gliene sono grato. Penso che una volta realizzato un film secondo te buono, che la distribuzione lo aiuti o meno non toglie e non aggiunge niente al valore dell’opera. A distanza di quasi dieci anni dal mio arrivo a Roma sé vado in giro in macchina sono sicuro di non perdermi, la ritengo ormai, la mia città; a Palermo, che invece è la mia città di origine, il mese scorso sono uscito in macchina e mi sono perso, non la conosco più. Roma è la città in cui, per vari motivi, ho sempre desiderato vivere, mi piace ma so di non conoscerla bene, fino in fondo, ancora non sono andato ai Musei Vaticani. Forse il giorno in cui ci andrò, chissà? cambierà la mia vita.

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