Paolo Villaggio, attore-scrittore

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)
a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera

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PAOLO VILLAGGIO, attore-scrittore

Ho scelto di vivere a Roma per il lavoro che faccio, l’industria del cinema che è abbastanza florida, nasce e vegeta in questa città. Direi che la capitale cinematografica europea è proprio Roma, il cinema inglese è agonizzante per quello che riguarda la produzione commerciale, quello francese anche, mentre in Spagna solo ora, dopo la dittatura, il cinema sta riprendendo fiato.
Roma però non è almeno per me una musa ispiratrice. È stata una città bellissima nel ‘500, ma ormai ne è passato del tempo! Negli ultimi quarant’anni l’hanno devastata in maniera terribile con la speculazione edilizia; la cintura suburbana credo sia peggio di Calcutta: orribili casamenti, poche strade, strutture agghiaccianti, siringhe dappertutto. Ed ora anche il centro storico è diventato talmente sporco che risulta difficile individuare la sua memorabile bellezza. Se poi provi a rivolgerti ai “sudditi” romani ti rispondono: “a me de ste’ elezioni…l’ammazzerebbe tutti!”; cioè si pongono al di fuori dalla mischia come se la realtà della città non appartenesse anche a loro, s’invoca la risoluzione del traffico, ma poi non si rispetta neanche il semaforo rosso. Ma aimè grazie a questa cialtroneria Roma è anche comodo, puttana, meridionale, molto mediorientale, infine vivibile se hai una buona disponibilità economica; e poi ha un clima meraviglioso; ed è una città in cui se ti prende un momento di ansia, di insonnia o di angoscia hai la certezza di trovare, andando in una qualsiasi piazza, almeno dieci persone disposte a parlare con te. Certo il traffico, i telefoni e la televisione massacrano, sono elementi tali di disturbo che impediscono di leggero, di comunicare davvero con la gente, di raggiungerla fisicamente. Solo verso la mezzanotte finalmente la città si svuota e comincia a corrisponderti, ma immediatamente dopo ti accorgi di quanto sia disperante ritrovarti in postacci come l’Eminguey, il Rubirosa o il Bar della Pace, in questi luoghi più che altro la costante è una leggera disperazione; la preoccupazione di dover parlare con qualcuno solo per placare l’ansia, ma essere assolutamente consapevoli di non aver alcuna voglia di stare in mezzo alla gente; è una specie di malformazione che prima o poi ti colpisce, Roma ha una caratteristica fondamentale della sua personalità, ti fa sentire la solitudine. Altrove la solitudine non è così sgradevole come a Roma, a volte mi capita, arrivato in qualche posto, di chiedere “è arrivato tal dei tali?” mi vergogno che si capisca che sono solo. Ma, come dicevo, Roma ti rende anche la vita facile, per esempio all’ultimo momento puoi mancare ad un appuntamento, senza lasciare per questo la gente completamente spiazzata, poiché è una città dove, si sa, c’è il traffico. E poi in questa città ho avuto fortuna.
Nei primi trentaquattro anni della mia vita, passati un po’ in Inghilterra ed un po’ lavorando a bordo delle navi da crociera dei fratelli Costa, i miei rapporti con l’esistenza sono stati molto faticosi; a Roma invece, grazie al potere conseguente al successo raggiunto, ora sono al centro di piccole cortesie: i vigili non mi fanno la multa, la gente mi mostra affetto e simpatia…qualità che comunque scompaiono quando il romano è al volante della propria automobile: diventa terribile! Protetto da quella corazza si permette qualsiasi cosa.
Mi piace a questo punto fare un accenno alla cultura gastronomica romana, essa ha una radice fatta di avanzi, avanzi di trippa, d’interiora. Nei secoli passati avveniva pressappoco questo: i nobili, i ricchi buttavano gli avanzi dalla finestra ed il popolo con le ceste raccoglieva, del riso facevano i supplì, la coda serviva per fare la coda alla vaccinara, con gli intestini facevano la pajata. Di fatto quindi la tradizione culinaria del popolo romano è povera, mendicata, fatta di avanzi.
E Roma se vogliamo non è né ricca né raffinata neanche nell’offerta culturale. Oggi si respira al massimo la cultura “del chi c’era”: “stasera che fai?”, “non so, vado là…”, “e chi c’è?”; si è alla ricerca rassicurante di persone gerarchicamente importanti: politici o uomini di potere, che nell’attuale dolce vita sostituiscono sempre più gli intellettuali.
La triste costante, che verifico in tutti, è il non parlare più di libri o di film nel loro contenuto, l’argomento di discussione non è più la materia letteraria, ma lo share che un programma televisivo ha raggiunto, si parla dell’audience! Forse è ingenuo pretendere dalla cultura certe cose, forse è giustamente inevitabile che in tutto il mondo stiano cambiando profondamente le nostre abitudini. Certo è che ormai spostandoti dal nord al sud è difficile distinguere le differenze dei modelli della tradizione locale, sono tutti omologati allo stesso modo, vestono, parlano, mangiano, leggono, quando leggono, tutti nello stesso modo. Un tempo andare al liceo era un patrimonio di élite, adesso frequentare l’università è una possibilità di tutti.
Franco Cordelli ha dichiarato che il più grande scrittore umorista italiano del dopoguerra è Fantozzi, cioè io, ed è vero. Il mio linguaggio definito originale si è mantenuto fuori dalla convenzionalità di oggi proprio grazie ad una forma di reticenza ad accettare i luoghi comuni e soprattutto grazie ad un atteggiamento assolutamente critico verso tutto, a partire dal mio lavoro. Quando per esempio sono arrivato in televisione, ho ribaltato un gioco delle parti collaudato al quale il pubblico ormai credeva. Oggi lo fa un Grillo straordinario, un Chiambretti che è mio figlio, ma il padre sono stato io. In fondo mi ha sempre caratterizzato una volontà di solitudine, di straniamento, che forse non aiuta ad arricchirti, non ti migliora, ma almeno ti salvaguarda dall’essere anche tu uno stereotipo. Di questo mi illudo.

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