Nel processo materico di Antoni Tàpies e Anselm Kiefer l’anello dell’Esistenza-si-lega-al-Senso

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INDICE ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­____________________________________________________________

  1. Arte è~e Vita 
  2. Antoni Tàpies, nel silenzio rendere visibile l’invisibile 
  3. Anselm Kiefer, l’Arte sopravvivrà alle sue rovine
  4. Il cammino dallo scarto al resto nell’esperienza artistica di Tàpies e Kiefer
  5. Bibliografia

 

  1. Arte è~e Vita                                                                                                      

 «…tutto il mondo è sotto chiave e tutto va aperto – ogni volta è una cosa
diversa, ogni poesia è un lucchetto, e sotto quel lucchetto c’è una certa verità,
ogni volta diversa – unica e irripetibile – come il lucchetto stesso» Marina Cvetaeva

«L’arte non si può separare dalla vita, è l’espressione della più grande necessità della quale la vita è capace», scriveva Robert Henri – pittore statunitense e figura guida dell’Ashcan School del realismo americano, fondatore del gruppo detto Gli otto.

Arte è~e Vita. Un processo di secolarizzazione dall’arte tradizionale che attraversa l’autonomia dell’opera d’arte fino al compito di cambiare il mondo, dell’arte d’avanguardia. Poi l’Arte Moderna che – come sostiene Giuseppe Di Giacomo1 – nella teorizzazione che ne fa Theodor W. Adorno nella Teoria Estetica 2, si distingue sia dall’arte tradizionale che dall’arte d’avanguardia, dal momento che rinuncia alle categorie dell’Eternità e della Bellezza, per rivolgersi alla temporalità e alla caducità, superando quella compiutezza che caratterizza appunto l’arte tradizionale fino alla fine dell’Ottocento. Il punto fondamentale di Adorno è la consapevolezza che l’autonomia nell’arte moderna fa tutt’uno con la non-autonomia.

Arte quindi non “altro dal reale” che la ridurrebbe a semplice merce di evasione, ma Arte per “l’altro dal reale”, ovvero quelle possibilità che non si sono realizzate. Questo punto è di estrema importanza e rappresenta la nostra base di indagine in questo scritto.

L’interpretazione e la tensione avvertita dagli artisti nei secoli verso la vita hanno rivoluzionato le abitudini visive dell’osservatore e modellato, volta per volta, quell’effettivo intreccio di concetti, comportamenti e norme che costituiscono la condizione di esperienza attraverso le opere d’arte.

Lo sguardo della nostra riflessione che investe il tema centrale della modernità nel contendere arte e vita, approfondisce l’opera di due artisti fondamentali degli ultimi decenni, ovvero Antoni Tàpies e Anselm Kiefer.

La genialità della loro opera è nella capacità di liberare le possibilità espressive del corpo della materia, indicando il punto esatto in cui l’arte si distingue dalla vita o, per l’esattezza, dove essa si differenzia dalla vita. Tale distinzione è cruciale. Come se dei frammenti per entrambi materici potessero abolire il confine tra l’organico e l’inorganico, tra luce e oscurità, tra l’essere e il nulla. Nel superamento della dicotomia all’interno della quale l’individuo nella realtà quotidiana si dibatte, polarizzato tra interiorità ed esteriorità, mondo visibile ed invisibile, materia e spirito, personale ed universale.

Ad accomunare Antoni Tàpies e Anselm Kiefer è l’attenzione fondamentale e intensa rivolta alla concretezza della materia, una materia con la quale i nostri artisti esperiscono una gettatezza e una fatticità creativa continua, aperta e inconcludibile in cui è trasfusa lo schiudersi e il ritrarsi della realtà.

Un’arte che non parla solo all’occhio ma anche, e a volte in misura maggiore, al senso del tatto, offrendoci un’arte della testimonianza, della denuncia, capace di rinunciare alla Bellezza, che è stata per secoli la categoria estetica alla base della produzione artistica, per amore della bellezza, come sostiene ancora Adorno.

Quest’atto di negazione ha un preciso valore etico che coinvolge quell’esperienza artistica ascritta per congiuntura storica all’Informale, con, tra gli altri, oltre ai nostri due artisti, Jean Dubuffet, Jean Fautrier, Wols, Alberto Burri… di cui ogni singolo percorso è però sempre svolto all’insegna di una grande autonomia, della sperimentazione e dell’intuizione individuale che comprende realtà differenti, complesse, articolate e discordanti.

 

2. Antoni Tàpies, nel silenzio rendere visibile l’invisibile                                         

 «L’idea essenziale che mi viene in mente è trovare un’arte che stimoli una visione
in profondità, che ci avvicini alla realtà autentica, alla vera natura dell’uomo.
Con un approccio il più intenso possibile, si può entrare nel centro dell’universo» Antoni Tàpies

Antoni Tàpies è nato a Barcellona il 13 dicembre 1923, figlio di Josep Tàpies Mestres e Maria Puig Guerra. Durante la sua infanzia visse in un ambiente sociale e culturale segnato, in larga misura, dall’amicizia del padre con personaggi di spicco della vita pubblica e del repubblicanesimo catalano dell’epoca, e dall’intensa attività civile e politica del nonno materno.

Questa famiglia borghese, colta e immersa fin dalla metà dell’800 nella tradizione dell’editoria e del libraio, risvegliò nel giovane artista presto l’amore per i libri e per la lettura. Queste circostanze familiari gli hanno fornito una straordinaria opportunità fin dalla tenera età di leggere, tra gli altri, Nietzsche, Stendhal, Maupassant, Proust, Wilde e Sartre.

Due aspetti significativi segnano rispettivamente l’inizio e la fine della sua adolescenza. Da un lato, la guerra civile spagnola (1936-1939) e il suo esito segnano profondamente molti aspetti della sua successiva carriera e imprimono uno spirito di ribellione che è già nei suoi primi tentativi artistici. E, d’altra parte, la malattia e la successiva convalescenza che, nell’arco di due anni (1942-1943), attraverso la riflessione, la lettura, la musica, il contatto con la natura e un regolare esercizio di disegno e pittura, plasmano definitivamente la sua vocazione.

L’interesse per l’arte contemporanea, nello specifico, si risveglia in lui molto presto, soprattutto quando nel 1934 riceve un numero speciale della rivista D’Ací i d’Allà dedicato alle avanguardie artistiche del XX secolo.

Tàpies fa parte della tradizione degli artisti occidentali che dalla fine del XIX secolo hanno usato la scrittura per esprimere le proprie teorie artistiche. Nel corso della sua vita ha pubblicato sette volumi, cinque dei quali sono una selezione di articoli pubblicati sulla stampa e sui media. In questo senso Antoni Tàpies, in quanto collaboratore assiduo di alcuni delle testate d’informazione più importanti del suo Paese, ha coltivato la scrittura in modo attivo e regolare, esprimendo le sue opinioni su quei temi che riteneva rilevanti.

Pur pensando costantemente all’arte il pittore – lo ha ripetuto in più occasioni – non ha voluto scrivere un libro dove fosse raccolta la sua concezione estetica o la sua filosofia dell’arte: «Nella nostra epoca di crisi generale, il migliore dei sistemi è secondo me di non adottarne alcuno. Nelle mie mani poi una teoria dell’arte non durerebbe a lungo3».

Tra le questioni che l’artista affronta in più articoli possiamo evidenziare la questione del significato dell’arte, un tentativo di avvicinarsi alla figura dell’artista, e i legami tra arte e spiritualità. Considerando il contesto sociopolitico in cui cresce, la libertà è tra i temi prioritari che Tàpies concepisce in più sensi: la libertà produttiva della sensibilità, la libertà di creazione, la libertà dello spettatore e, naturalmente, la libertà politica. Lo stesso L’Arte contro l’estetica, pubblicato nel maggio 1974, è un grido a favore dell’indipendenza dell’arte rispetto alla teoria estetica. In questi scritti di Tàpies, la funzione sociale dell’arte si pone come strumento di emancipazione per una cittadinanza che è saldamente nelle mani del regime franchista.

Tàpies rifiuta ogni tentativo di ridurre il ruolo dell’artista a mero comunicatore inteso come colui che riproduce il discorso generato anche da pensatori e scrittori. L’artista deve trovare una propria voce che lo definisca ed è necessario stabilire le relazioni tra questa personalità e la funzione sociale dell’arte, per accompagnare lo spettatore nello svelamento della realtà. Il pittore catalano è molto sensibile ai postulati espressi da Kandinsky e Dubuffet che considerano la pittura un modo per accedere a una profonda conoscenza della realtà.

In questa direzione, artista e spettatore devono condividere un livello culturale che renda possibile la comunicazione dell’esperienza artistica, poiché l’arte moderna e progressista richiede la partecipazione dello spettatore all’atto creativo. In questo senso, i suoi testi sono la toccante testimonianza di una critica alle istituzioni e alle politiche culturali, che, più attente alla promozione della produzione artistica, hanno messo da parte la formazione delle sensibilità.

Parole come misticismo, energia, sentiero, Dio o meditazione riempiono i suoi scritti ma Tàpies non appartiene a nessuna religione, anche se l’artista ha una visione molto personale su questo tema, appunto influenzato dalle culture orientali, in particolare quelle di India, Cina e Giappone.

Per il pittore catalano l’arte ha un significato vincolante e nel Novecento, nonostante la secolarizzazione, bisogna considerare l’arte moderna come quella che mantiene la forza spirituale e morale. La separazione tra arte sacra e arte profana non ha più senso, poiché la vera arte moderna è quella che incorpora visioni del mondo, simboli e miti che sono stati usati dai mistici di tutti i tempi. In questo contesto, l’opera d’arte dovrebbe essere valutata solo in termini di tono spirituale.

La morte del dittatore Francisco Franco nel 1975 segnò un cambiamento radicale nell’opera del pittore, in quanto il fango, i muri e tutti quei materiali che avvertono dei pericoli della dittatura sono sostituiti da vernice per avvisarci ora del pericolo della tirannia del mercato, quella dei vecchi sistemi e quella dell’autocensura.

Il contributo artistico di Antoni Tàpies è stato uno dei più notevoli della seconda metà del XX secolo per diversi decenni. La sua influenza ha presto trasceso l’ambiente circostante e oggi è una figura che gode di un riconoscimento internazionale.

Sono pochi i pittori che, come Antoni Tàpies, riescono a infondere alla materia inanimata un’irradiazione e una capacità di evocazione tanto intense. Attraverso il procedimento pittorico adottato, di fatto, l’arte di Tàpies vive della realtà sensoriale della materia usata che si avvolge di un’aura spirituale. 

La durezza dei suoi muri, uno dei motivi dominanti della sua opera, è data da incisioni, segni sulla superficie a strati sovrapposti, come se il tempo ed eventi passati avessero lasciato tracce rovinose di escoriazioni, accumuli, impronte che ci presentano una dimensione materica anonima che non si era mai espressa con così tanta forza e vigore prima nell’arte contemporanea.

Tàpies non si limita a manipolare la materia ma lascia che questa si manifesti e nel manifestarsi riveli il proprio carattere spirituale, negando al contempo ogni rottura tra spirito e materia d’origine. Simbolo di questa negazione è la croce, elemento che torna frequentemente nella sua produzione, dove si integrano i contrari e l’attivo e il passivo si fecondano a vicenda, come una permanente riflessione sulla condizione umana.  

«Gli spettatori dei suoi quadri gli chiedono spesso del significato dei frequenti muri, delle porte e delle finestre che appaiono nella sua opera. Di fronte a ciò egli risponde che ha realizzato molte meno porte, finestre e muri di quanti gliene vengono attribuiti 4». La sua risposta, in altri termini, invita a leggerli come qualcosa di più rispetto a dei semplici oggetti: «…conservano la loro realtà senza nulla perdere della loro carica archetipica e simbolica5».

Tàpies pretende che chi si pone davanti alle sue opere le interpreti come manifesti, dichiarazioni e denunce, anche se – e in questo è vicino a Adorno – sa che l’arte non può trasmettere direttamente alcun messaggio politico.

«Nella struttura della comunicazione artistica – afferma – le cose si sviluppano in modo un po’ diverso rispetto alla quotidianità. Nell’arte le cose esistono e nello stesso tempo non esistono, appaiono e scompaiono, si mescolano e stabiliscono nuove e magiche relazioni. Si partecipa ad un gioco di possibilità molto più ampio della realtà».

«…Mi misi a lavorare con una intensità veramente estenuante: cominciai col fare un graffio sulla tela; poi un altro…mille altri. Questi graffi erano come ferite, come cicatrici che testimoniavano il mio sforzo, l’esuberanza della mia ossessione a voler concretizzare una forma sul quadro.

Il modo peculiare di applicare la materia di Tàpies permette alla superficie del quadro di trasformarsi in una crosta di varia consistenza. Usa nel suo lavoro non solo la materia pittorica, ma anche materiali quotidiani e rifiuti, fino a perfezionare il miscuglio di polveri di marmo e colla.

Il risultato fu che l’opera produceva un effetto inquietante a causa della lotta materiale che rifletteva. Aveva l’aspetto di un muro rovinato o di una vecchia pergamena…Il muro, l’ho trovato sulla tela, di sorpresa, senza averlo cercato 6».

«Se devo rendere conto del modo con cui ho preso coscienza, a poco a poco di questa potenza evocatrice delle immagini dei muri – ha scritto l’artista – occorre risalire a molto lontano. Sono ricordi che provengono dall’adolescenza e dai i miei anni giovanili stretti tra i muri, i muri dentro i quali ho vissuto le guerre (…). Nella città in cui avevo l’abitudine di considerarmi a casa mia tutti i muri recano la testimonianza del martirio del nostro popolo, gli arresti inumani che gli sono stati inflitti».

I muri riferiti all’esperienza della Guerra civile in cui si assassinava, con i segni inumani che vi erano inflitti, ma anche i muri dei graffiti, dei poster, degli scritti aspiranti alla libertà, rappresentano sì la base del suo lavoro, dove la tela è un campo di battaglia con i colpi inflitti alla materia.

La stessa predilezione per le tinte scure, in particolare per il grigio, testimonia l’espressione di un mondo abbandonato dal senso, corrispondendo alle parole di Adorno relative all’impossibilità di un’arte serena oggi. La stessa scrittura riportata nelle tele eccede in altro modo il suo significante rivelandosi come interruzione del silenzio e autentica manifestazione della tragedia e della catastrofe del mondo.

L’impeto creativo comporta sia emozione che riflessione: «…un giorno ho tentato di arrivare direttamente al silenzio. Più rassegnato, mi sono sottomesso alla necessità che governa ogni lotta profonda. Le migliaia di graffiature si sono tramutate in migliaia di granelli di polvere, granelli di sabbia…Tutto un paesaggio nuovo come nella Traversata dello Specchio, mi si offrì all’improvviso, aprendomi l’essenza più intima delle cose7».

È il silenzio a costituire il nucleo essenziale e la vera ragione dell’essere dell’opera di Tàpies. Un silenzio necessario perché la contemplazione strettamente in relazione alla prassi creativa dia i suoi frutti, ed è proprio il silenzio che percepiremo come fondamentale quando avremo dimenticato i dettagli, e conserveremo solo un’idea di quello che i suoi quadri contengono.

Le opere di Tàpies non ci concedono alcun riposo, né cercano di dare piacere, ma ci rendono silenziosi e ciechi: negazione del mondo com’è per entrare nell’oscurità, nel vuoto dell’esistenza dove appunto sembra che si integrano i contrari e non possiamo più distinguere le cose tra loro. Dove l’arte e la vita si fecondano a vicenda!

È un fatto che quasi tutte le opere di Tàpies ci fanno scoprire la realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi senza poterla vedere. A un livello più profondo, forme, segni, oggetti e accidenti della superficie acquistano un nuovo valore, e sembrano rinviarci a qualcosa che, si direbbe, sta fuori.

«Riflettere sulla paglia o sul letame ha forse oggi una qualche importanza. Vuol dire meditare sulle cose primarie, sull’essenza della natura, sull’origine della forza e della vita8».

Si realizza quello che Paul Klee definisce il fine dell’arte: rendere visibile l’invisibile.

Tàpies si rende conto che è necessario avanzare nell’esplorazione diretta della materia, che è necessario incorporare nella pittura, nel quadro, nella stessa materialità, che è necessario pensare l’opera come un tutto organico.

«…Era necessario, dunque, andare oltre nella sperimentazione della percezione visiva e puramente pittorica, bisognava prescindere dall’idea di un codice, lanciarsi nel vuoto, con il solo obiettivo di cercare di rendere evidente quello che si cerca.

Compresi anche che le possibilità di forme e colori sono infinite quando si esce da quello che si intende per geometrismo e si entra nel mondo incommensurabile dell’organico, di ciò che si chiama amorfo, dell’ambiguo, della macchia, dell’espressionismo, del puro gesto, della calligrafia…così come appresi della pittura cinese e giapponese. Però cominciai anche a rendermi conto che in quel nuovo linguaggio non erano state ancora esplorate (almeno non sufficientemente) le possibilità di un terzo elemento: la testura, che ugualmente poteva essere di una grande forza espressiva9».

Non sono né il colore, né la forma al centro del lavoro maturo di Tàpies. Piuttosto la trama che viene appunto teorizzata da Tàpies come terzo aspetto plastico10. La trama e un modo – il modo personale di Tàpies – per dire il reale, in modo radicale è il suo modo di dire l’essenza come ciò che è già stato.

L’artista invita lo spettatore ad accedere a un livello di conoscenza più profondo; di fatto, attraverso il muro e attraverso il livello della materia sensibile, l’opera dischiude dal suo stesso interno una dimensione conoscitiva che in Adorno viene definita contenuto di verità, dove assistiamo alla negazione di ogni dualismo tra materia e forma, tra sfondo e figura, tra cielo e terra, tra corpo e spirito10.

Picasso, Miró e Klee sono i riferimenti che più hanno influenzato il suo modo di concepire il mestiere: il valore dell’opera è condizionato dal valore umano dell’artista. La pittura è il proprio mondo e la propria maniera di esistere per un artista.

Nello sforzo per avvicinarsi all’essenziale che esiste al di là delle manifestazioni delle cose, nel lungo lavoro per mostrare il primordiale al di là del contingente, l’arte, nel suo fare quotidiano, trasmette un mondo personale di idee e valori, del quale l’artista si alimenta e che hanno il loro pieno significato nella società. L’artista così si interroga sulla relazione tra l’arte e i diritti umani e la stretta dipendenza dell’opera d’arte dalla qualità morale dell’artista.

Dall’azione congiunta di tutti questi ingredienti Tàpies inizia la costruzione di un linguaggio proprio che rivela una grande ricchezza sperimentale di tecniche per generare un’intensità espressiva che l’osservatore non può eludere.

Gli anni intorno al Cinquanta segnano indubbiamente il momento più dirompente del percorso artistico del pittore catalano. È dal 1953 che nasce la solidità che caratterizza ciascuna delle immagini dell’universo di Antoni Tàpies, dove Pittura con Croce Rossa (1954) Grande pittura grigia (1955) Serranda metallica e violino (1956) Letto marrone (1960) Pittura sul telaio (1962) Nero con linea rossa (1963), solo per citare alcune delle sue manifestazioni pittoriche più significative che ci offrono una sintesi di stati d’animo, sensazioni e sentimenti, traumi e processi mentali che, comuni a lui e al mondo che lo circonda, costringendoci a una comprensione e una decodifica mai sufficientemente definitive. Non a caso, sulla superficie del quadro possiamo vedere, per esempio, un cappello, un piede, un letto o un corpo, insieme rappresentati e in rilievo, ma anche un pezzo di muro sul quale il tempo, gli agenti atmosferici e la mano dell’uomo hanno lasciato le loro impronte. Un’intensa sensorialità che pretende di evocare realtà spirituali, tanto che si può dire che quel materiale è utilizzato per rendere visibile lo spirituale stesso12.

Tutto fa credere che, con la sua utilizzazione di materiali esterni alla pittura – e non solo -, Tàpies abbia dato anche validi impulsi, nelle sue originali ricerche, a un artista tanto interessato alla solidità materica quale è Kiefer che, come Tàpies, apre lo spazio a una trascendenza che sembrava completamente svanita, dove nella fusione tra idea e materiali, tra testa e mano, tra attivo e passivo, si feconda così un mistero.

 

3. Anselm Kiefer, l’Arte sopravvivrà alle sue rovine                                                 

«il mondo reale non esiste se non attraverso l’opera d’arte o la poesia, che si distinguono nettamente dalla vita» Anselm Kiefer

Anselm Kiefer condivide, tra le tante simultaneità, con Antoni Tàpies l’amore per i libri-la scrittura: «Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Ha un’importanza capitale, tanto nella mia vita quanto nella mia pratica artistica. Ritengo che rappresenti il 60% della mia opera.

D’altra parte, tengo un diario nel quale annoto giorno per giorno bozze d’idee da sviluppare, schizzi, citazioni da poesie, epifanie del quotidiano… progetti, o ancora il piano delle camere d’hotel nei quali soggiorno…Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura.

Al mattino, prima di iniziare a lavorare, spesso percorro la mia biblioteca. È lunga sessanta metri, e ciò mi permette di camminare come al Vaticano. Spesso trovo il libro di cui ho bisogno, qualunque sia il soggetto. È molto curioso, come si trova ciò che vi si cerca. Sono convinto che abbiamo un accesso ai nostri libri che non passa per l’intelletto, che transita altrove rispetto al cervello13».

Così come Antoni Tàpies anche Anselm Kiefer ha preferito non sviluppare una teoria estetica di qualche tipo, ma nelle diverse lezioni e interviste realizzate nel tempo ha tracciato quel sapere-in-divenire che corrisponde alla sua pratica artistica. «Scrivo molto e parlo spesso con me stesso, perché i pensieri nascono con la parola – diceva Kleist – e questi soliloqui danno origine a quadri, a costruzioni14».

Nello specifico, il titolo riportato in apertura del capitolo: L’arte sopravvivrà alle sue rovine; riassume il ciclo di lezioni tenute da Anselm Kiefer al Collège de France di Parigi, da cui poi è stata tratta una pubblicazione15.

Il fulcro del suo seminario di Creazione artistica è il fare arte, cosa è arte.

Lui vive di arte, ha fede solo in lei: «…non riuscirei a vivere senza poesie e senza quadri, non solo perché non so fare nient’altro, perché non ho imparato nient’altro, ma per ragioni quasi ontologiche. Perché diffido della realtà, pur sapendo che, a modo loro, anche le opere d’arte sono un’illusione16».

Kiefer premette che non esiste una definizione di arte: «si sottrae alla nostra presa appena vogliamo impadronircene». Sostiene che questa regredisce, al contrario della scienza che integra i suoi continui progressi, l’arte va in due direzioni, avanti e indietro, un’opera può distruggerne un’altra, ogni corrente artistica è nata dalla volontà di regredire contro l’estetica dominante.

L’arte insorge contro sé stessa, sottoposta all’autodistruzione, risorge dalle sue ceneri.

«La sopravvivenza dell’arte va comprovata di volta in volta. Un quadro evolve – afferma Kiefer – a ritmo continuo e parlare di un lavoro ancor prima di averlo iniziato significa che questo appartiene già al passato, si è perso nelle parole17».

La sua pratica di lavoro comprende maltrattare i lavori, abbandonarli per poi riprenderli. Il dipinto, la scultura assume i connotati di una benjaminiana18 rovina, le forze naturali prendono il sopravvento sull’opera umana, si serve di pratiche alchemiche, in ascolto aspettando il momento giusto in cui tutti i materiali che assembla possano trovare la loro forma e il loro posto nel mondo: «I miei lavori sono soggetti a un cambiamento altrettanto costante. E non so dirti il numero di volte in cui le “immagini” sono state distorte, riprese e distrutte nuovamente. Posso solo dire questo: siamo prigionieri delle immagini, che diventano immagini di liberazione solo quando le abbiamo distrutte – ovvero nell’esperienza della morte e della resurrezione19».

L’opera d’arte è una rivelazione che avviene all’insaputa del suo stesso creatore. Nulla resta immobile, qui il passato si forma nel presente, circolano le idee, le opere si creano.

«Spesso è necessario lanciare un rampino per procedere, ma il più delle volte non si impiglia dove avremmo voluto. La ragione è che l’abbiamo lanciato nel nulla. Talvolta il nulla risponde e allora noi vi restiamo aggrappati senza sapere da dove proviene o quanto resisterà. Ignoriamo dove ci siamo aggrappati, ma ci reggiamo fermamente, per non precipitare nel vuoto20».

E perché ciò avvenga le sue opere attraversano delle fasi: Putrefactio dove tutto è e bisogna operare una scelta; Dissolutio i riferimenti troppo oggettivi vengono cancellati come bruciare il quadro (nigredo trasmutazione alchemica), dall’oscurità si trova l’inizio per raggiungere la luce pura, la grande conoscenza; Coagulatio il quadro acquista il suo senso che diventa significato, spogliandosi acquista mistero.

Obbiettivo finale è l’arte stessa, capace di superare le proprie rovine.

La forza dell’arte va di pari passo con la sua rimarchevole propensione a ricostituirsi in altri spazi e tempi a dispetto di avversità, traumi e deterioramenti. Il suo spazio dunque deve essere sovversivo. L’arte deve essere nociva ed è la sua rivelazione a posteriori a rivelarne il concetto.

L’arte come la poesia produce la realtà che si fonda su questo interdetto: appartiene alle cose irrappresentabili che tuttavia possiedono una presenza.

Kiefer spiega che esistono due universi percepibili, uno percepibile ai nostri sensi e l’altro invisibile. Il problema è nelle nostre percezioni che interferiscono nella capacità di distinguere la cosiddetta immagine reale. I nostri organi sensoriali non riproducono il mondo come esso è, lo interpretiamo. Il mondo esterno non esiste, è ciò che percepiamo.

Perciò solo l’arte è reale. «Il resto, per quel che mi riguarda – precisa Kiefer -, non è altro che incoerenza e assurdità21». Ecco ciò che l’artista tedesco avrebbe capito solo dopo una lunga esperienza. Grazie alla quale avrebbe anche potuto rendersi conto del fatto che «la vita è radicalmente separata dall’arte21». Arte e vita, quindi, come verità e illusione; frammento e interezza. Che tutto sia frammento l’aveva capito anche Benjamin, così come l’aveva capito Man Ray. Tutti costoro avevano già capito, cioè, che solo nelle rovine il passato può manifestarsi in tutta la sua verità.

E da qui la grandezza dell’arte appare incontenibile alla percezione dei sensi dell’uomo come al vaglio della sua mente. «L’arte – dice Kiefer – introduce in un nuovo sistema i generi più disparati di conoscenza. Riunisce questo sapere e crea una visione unificata che deve essere costantemente reinterpretata. Arte è anche divulgato perché esprime più di qualsiasi scienza22».

Dunque, nella creazione artistica siamo invitati a riflettere sul fatto che l’arte scopre e tramanda una gamma di dati intraducibili in numeri e concetti di consumo. Le opere sono custodi di una tensione tra stati di fatto e idealità estranee al dominio empirico, aspirazione all’armonia e riconoscimento della complessa disunità del mondo.

E la poetica di Kiefer avalla un gusto per il frammento: materiali eterogenei quali pigmenti, detriti, piombo, cenere, ferro, vetro, paglia foto, fiori e arbusti frequentemente si intrecciano fra loro per ricomporsi in immagini discontinue.

«Quando sono di fronte ad alcuni materiali, ad alcune sostanze, mi capita di osservarli con un altro sguardo, di trascenderli o di spiritualizzarli, il termine non è importante. Il piombo può simboleggiare a buon diritto lo sviluppo, l’evoluzione…la paglia, la paglia che si trasforma in concime, rappresenta per me l’effervescenza della trasformazione e mescolata agli escrementi degli animali diviene materia oscura. La sabbia, materia di transizione23».

«Ci piacerebbe creare qualcosa che fosse al tempo stesso l’inizio e la fine. Vorremmo arrivare a un punto culmine a partire dal quale, da ogni lato, tutto scende giù in verticale e dove la difficoltà maggiore è riuscire a restarvi ancorati un po’. Ma è impossibile, perché sopraggiungono sempre la caduta, inevitabile, e la sparizione – che abbiano luogo in un alone dorato o nel nulla….

L’autodistruzione è sempre stata la finalità più intima e più sublime dell’arte, la cui vanità a quel punto diviene evidente. Perché qualunque forza abbia l’attacco, e quand’anche giunga fino all’estremo, l’arte sopravvivrà alle sue rovine24».

La realizzazione di un quadro è un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa. Tra l’effimero e l’assoluto al quale anela. Questa oscillazione, questo va-e-vieni tra l’arte e la vita è appunto ciò che non può essere stabilito definitivamente. Un’incessante oscillazione da uno stato all’altro.

Fino a quando l’opera lascia lo studio, circola per il mondo e dunque non può più essere rielaborata. Qui interviene lo spettatore, l’amante dell’arte, a completare l’opera che era passata nelle sue mani. Per l’artista, alla fine, la cosa essenziale è il processo, non il risultato.

«Quando inizio a dare forma a un’immagine, so che, allo stesso tempo, è la sua negazione. Non c’è alcun capolavoro, ma piuttosto l’avvio di una trasformazione in continua evoluzione. All’inizio della mia carriera come pittore, negli Anni Sessanta, ero disperato perché dovevo ancora rendermi conto che non sarei mai riuscito a creare “l’opera d’arte in sé”.

Dopo un po’ di tempo, sono riuscito a ricavare un sistema, una strategia, un metodo da questo fallimento costante. E quando, dopo più di quarant’anni, ho scoperto per caso Andrea Emo, quello è stato il fondamento filosofico del mio metodo. Ero felice e affascinato da questa meravigliosa intesa con il filosofo. Era come se avessi conosciuto Andrea Emo decenni fa. I quarant’anni intercorsi fra la scoperta del filosofo e l’inizio della mia carriera pittorica si sono ridotti a un solo istante, a un secondo logico. Perché il tempo non è qualcosa di fisso, è malleabile25».

Dice ancora Kiefer «mi è parso chiaro che la filosofia di Emo fosse quasi la sovrastruttura intellettuale e spirituale del mio modo di fare. Per me il vero artista è sempre stato un iconoclasta impegnato a mettere in scena un ordine prossimo a naufragare nel nulla26». E in questo nulla – aggiungiamo in questo scritto – manifestare una vocazione cosmica, una disposizione in virtù della quale le cose appaiono al colmo della loro luce.

 

4. Il cammino dallo scarto al resto nell’esperienza artistica di Tàpies e Kiefer     

«L’infinito è dentro una mano» Claudio Parmiggiani

Antoni Tàpies e Anselm Kiefer sono artisti per i quali ciò che conta nella loro azione poietica è il processo della materia. Materia che nelle loro opere, come abbiamo già scritto, porterà in sé innanzitutto le tracce impetuose dei due differenti tragici momenti storici e culturali che salgono dalla profondità del loro inconscio: uno riferito alla vicenda del regime franchista, l’altro a quello nazista.

Concedendo un breve cenno storico, riguardo la materia ricordiamo che si è imposta nell’arte a partire già dal 1910-1911 (collages cubisti, inserti dadaisti fino alla decontestualizzazione di Duchamp) ma il suo trionfo si realizza intorno alla metà degli anni Quaranta con le esperienze informali di Fautrier, Dubuffet, Burri, Pollock, klein…

Quella dell’informale però è un’etichetta troppo ristretta per descrivere l’autentica frattura dai molteplici aspetti che ha aperto il nuovo corso dell’arte nella seconda metà del XX secolo. Da qui in poi l’atto operativo materico rifiutando i problemi costruttivi e formali delle avanguardie europee dei primi decenni del secolo, s’immerge con la sua angoscia del segno e del gesto nel flusso del tempo, istituendo un nuovo rapporto di comunicazione col pubblico.

Il fenomeno è chiaramente visibile in Tàpies e Kiefer nella particolarità della materia scomposta, scavata, trasmutata in modo da non essere più materia inerte, ma materia che risuona. Questa pittura che si fa dis-facendosi, s-vela l’azione dinamica di ricerca della verità dei due artisti che attivano e fecondano strati e incrostazioni di luci e ombre di colore nei loro dispositivi espansivi che scuotono la quiete inerme per donare un rinnovato vigore a tutte le cose, ora rese frementi. Ecco quel che Heidegger chiama Lichtung27 traducendo il greco Alétheia (verità) che avremo modo di approfondire più avanti.

Ma vediamo più da vicino il tipo di processo che prende forma, quello che con Deleuze potremmo chiamare atto di creazione28.

Sia per Tàpies che Kiefer valgono le parole di Merleau-Ponty «l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita individuale in cui nasce…quanto l’artista sta per dire non c’è in nessun luogo, né nelle cose, che non sono ancora senso, né in lui stesso, nella sua vita informulata29».

La ricerca creativa, dunque, prende avvio dal nulla. È la prassi dell’arte che all’interno della quale del nulla si comincia a tracciare, grazie al fare, quel sapere-in-divenire (inaugurato dalla Encyclopédie di Diderot30) conquistato consapevolmente sul campo di battaglia dello spazio-tempo della tela, dove, qui in funzione di una pittura di materia e della materia, si modella pensiero e visione.

«La realizzazione di un quadro – secondo Kiefer – è un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa. Un’incessante oscillazione da uno stato all’altro. Attivata in virtù di un processo che «non segue nessuna regola, ed è incontrollato, come la fibrillazione cardiaca e, proprio come questa, può essere fatale. La vibrazione smette solo quando il quadro lascia lo studio, circola per il mondo e dunque non può più essere rielaborato31».

«…Mi misi a lavorare con una intensità veramente estenuante – dice Tàpies: cominciai col fare un graffio sulla tela; poi un altro…mille altri. Questi graffi erano come ferite, come cicatrici che testimoniavano il mio sforzo, l’esuberanza della mia ossessione a voler concretizzare una forma sul quadro6». «Spesso è necessario – dice Kiefer – lanciare un rampino per procedere, ma il più delle volte non si impiglia dove avremmo voluto. La ragione è che l’abbiamo lanciato nel nulla. Talvolta il nulla risponde e allora noi vi restiamo aggrappati senza sapere da dove proviene o quanto resisterà. Ignoriamo dove ci siamo aggrappati, ma ci reggiamo fermamente, per non precipitare nel vuoto21».

Il rampino d’aggancio sia per Kiefer che per Tàpies con la tela per azionare l’atto creativo è, dunque, il corpo-a-corpo con l’accumulo di paste cromatiche prima e materiali naturali e oggetti o frammenti di oggetti prelevati dalla realtà quotidiana poi: carboncino, gommalacca, colori, acrilici, corda, stoffa, carta cerata, cavi di metallo, legno cauterizzato, paglia, cartone, foglia d’oro, oggetti di zinco, acciaio, piombo, cuoio.

Evidentissima nella scelta dei materiali, la sovranità dell’artista si esercita nell’adozione di specifiche modalità compositive, di tipologie d’uso, di formule iconografiche trapiantate ripescandole nella memoria del passato. È in queste scelte – in questo processo – che si compie la selezione naturale delle idee. «Esse si affollano nella mente dell’artista, ma molte vanno eliminate, per conservare solo la più forte, la più inedita32».

Delle proprie opere Kiefer sottolinea il carattere processuale, perpetuamente non-finito: ogni opera «…comincia nel buio, dopo un’esperienza intensa, uno choc; all’inizio è uno stimolo, un impulso (…), e poi eccomi tutto nella materia, senza prenderne le distanze; nel colore, nella sabbia, nell’argilla, nell’oscurità del momento (…). Tutto cambia quando mi allontano dalla tela: ora ho qualcosa davanti a me, il quadro è là, e io ci sono dentro. E subito arriva la delusione: mi accorgo che qualcosa manca, ma non so che cosa. L’opera, una volta chiarito che è manchevole e non finita, può aver senso solo se messa in relazione con qualcosa d’altro, che a sua volta sia incompleto: come la storia, la natura, la storia naturale32».

È proprio in questo dialogo tra materia e modi di esecuzione, prove e sperimentazioni per addizione o sottrazione, e anche da molti incidenti estetici fortuiti, dal caso, tra natura e alchimia, che si instaurano nuove relazioni tra l’esperienza concreta del mondo e la conoscenza di altre possibilità di verità. Incorporando gli aspetti concreti in luogo di rappresentarli, nel tentativo di liberare le possibilità espressive della materia, con gesti e segni noetici33 forti, i due artisti  (ci pare di vedere Paul Cézanne come con i paesaggi) si immergono, si identificano in questo corpo che è la stessa carne del mondo36, fino alle radici fanno tutt’uno con l’esistente materico degradato, ferito, emarginato, violentato; poiché, come meglio definito nel concetto di chiasma o intreccio nel dirla ancora alla Merleau-Ponty: «…non siamo solo nel mondo ma anche del mondo34».

«Riflettere sulla paglia o sul letame ha forse oggi una qualche importanza. Vuol dire meditare sulle cose primarie, sull’essenza della natura, sull’origine della forza e della vita35». «La tela – ribatte Tàpies – diventa improvvisamente come un campo di battaglia dove le ferite si moltiplicano infinitamente. Tutto si fonda in una pasta uniforme. L’occhio non percepisce più le differenze. Quello che era stato un’ardente ebollizione si trasforma in un silenzio immobile36».

Con parole come queste i nostri due artisti attraggono la nostra attenzione sull’aspetto performativo del loro lavoro e sulla multimaterialità della loro prassi pittorica. Ci invitano a concentrarci sul loro processo creativo, per scoprire quel qualcosa che manca o per proseguire nel nostro sguardo il gesto poietico dell’artista. Ci invitano a entrare nel loro laboratorio, a tentare inventari dei materiali usati, della modalità della presentazione, delle tipologie pittoriche adottate, delle formule iconografiche che riusano e rilanciano.

Questo è il modo singolare di Tàpies e Kiefer di percepire in fretta la vita, la non indifferente natura – come intuisce Ejzenstein37 -, per aprire un passaggio nuovo, per tradurre altri possibili in arte «…per quella linea retta – ci ricorda Rancière – che unisce percezione, emozione, comprensione e azione38».

Nel loro lungo processo artistico, per tutti i segni e i gesti che pian piano danno luogo ad un quadro, nel segno cézanniano di motif39 sperimentano limiti, manipolano, amalgamano e contaminano la materia del mondo visibile nella propria totalità e pienezza assoluta, inoltrandosi nel senso nascosto attraverso cui le opere trascendono la loro oggettività e consentono di mettere in atto nel silenzio di un’aura inedita una contemplazione che com-prende una trasformazione. Ogni cosa afferma un vedere-attraverso40 immagini-segno in divenire, in grado di cogliere simultaneamente entro la campitura tessuta dal gioco invisibile di ritraimento e apparizione della realtà.

Ora, «in quale delle due esperienze (vita – arte), chiede in sintesi Beaufret41, l’uomo è più prossimo alla realtà? alla verità di ciò che è? Che cosa significa qui verità, e che cosa essa ha a che fare con il fenomeno dell’essere e con la comprensione che dell’essere ha l’uomo?»

Da qui, senza staccarsi dal loro fare, entrambi i nostri due artisti non hanno timore ad attraversare quei primi accordi materici scardinati sul nulla originale, lasciando libera la funzione dell’arte ad esperirsi quale effettivo organo del filosofare. Dalla vastità dei riferimenti storici e concettuali che caratterizzano i loro lavori si avverte la vicinanza di Tàpies appunto con la filosofia del già citato Merleau-Ponty, al pari di Kiefer che incontra Andrea Emo, quale fondamento filosofico del suo metodo: l’essere-e-il-nulla come inestricabilmente collegati. Il che corrisponde alla convinzione di Merleau-Ponty dell’uscita dal dualismo che si fonda sul fatto che il nesso corpo-mondo non è contrappositivo, ma di mutua inclusione. 

«Io so» dice ancora Kiefer «che tutto ciò che affronto contiene contemporaneamente la sua negazione. Quel nesso inscindibile di distruzione e creazione che vivo nella mia pratica artistica42» rigenerata in un continuum di opposti. Con la differenza rispetto a Heidegger, dove il nulla e il qualcosa sono sempre in contrapposizione tra loro, che per lui non c’è nessuna cronologia, è assoluto. Il nulla è l’incarnazione. Il nulla si incarna in qualcosa. L’esistenza è identica al nulla, che la pone a fondamento. L’essere e il nulla sono entrambi negarsi nel quale si nasconde l’essenza inafferrabile dell’arte stessa teorizzata nel nichilismo paradossale di Andrea Emo come: icona del Nulla43».

«Non si è mai saputo – scriveva Andrea Emo – che cosa siano realmente l’arte, la poesia, e non lo si saprà mai. Ciò non di meno, anzi appunto per questo, vi sono sempre stati e forse vi saranno sempre degli artisti ecc. che, appunto, sono artisti in quanto non sanno che cosa sia l’arte. Se, per assurda ipotesi, un giorno, si venisse a sapere cosa sia l’arte, si pervenisse a spiegarla e definirla, essa perirebbe irrimediabilmente44».

Riavvolgiamo il nostro scritto fin qui in sintesi. Attraverso l’esperienza di un movimento materico dell’arte che parte dal nulla, della coscienza di tale movimento e della traccia che resta sulla tela come simultaneità di un qualcosa e del nulla, i nostri artisti rendono sensibile l’invisibile, incarnano, danno corpo all’invisibile. È necessario schiarire in questo passaggio rapido che la materia e il processo artistico del fare dei nostri due artisti non hanno liberato, emancipato la materia nell’opera, non hanno annullato la realtà da cui proviene come scarto. La materia ha ancora fortemente traccia visibile della vita da cui proviene ma al contempo ora ha una nuova luce pura. Arte, quindi, che non può essere fraintesa come fuga dalla realtà o alla stregua di una sua idealizzazione. Il visibile resta nell’invisibile. L’essere resta nel nulla….la trascendenza non è più una fuga dall’immanenza. Non è un mondo dietro al mondo, ma è una piega interna all’immanenza, come un unicuum, dunque, che si affida alla sensibilità di chi osserva e comprende di farne parte.

Vale la pena ora di provare a osservare ancora un passaggio teso alla dimensione esistenziale che i nostri due artisti espongono all’osservatore per vedere, scoprire, comprendere oltre la realtà attraverso le loro opere-testo. Andando in questa direzione, incontriamo gli effetti simbolici di una praxis non disgiunta da una mètis come quella operata da Tàpies e Kiefer che forzando i bordi materici legano l’anello dell’Esistenza-al-Senso. L’arte per i nostri due artisti è la prova e l’affermazione del concetto che l’essere come tale non può mai essere spiegato e che l’unica realtà e quella dell’arte.

Per introdurre quest’ultima parte della riflessione, aggiungiamo senza resistenza, solo per un istante, che da sempre il dolore di esistere scopre la vita come disgiunta dal senso, tesi vicina a Gyorgy Lukacs45 secondo la quale Dio, ovvero il Senso, ha abbandonato il mondo, restando spettatore muto e lasciando gli uomini in un’interrogazione che non riceve risposte. Come esprime Jacques Lacan46: «appare come una muffa, come una protuberanza ingiustificata»; cioè ci dice che il dolore di esistere manifesta la vita come pura disgiunzione dal senso. Sigmund Freud direbbe della «ripugnanza del reale, dell’atrocità del mondo47».

Per dirlo troppo in fretta, la vita mostra sé stessa non-senso vissuta così com’è nella sua finitezza, dunque, si presenta scarto dall’origine! Il cui senso vorrebbe essere riscattato in un altro mondo, in un altro modo pur sapendo comunque che un tale tentativo è destinato al fallimento beckettiano48, perché l’artista non può fare nulla che abbia valenza di eternità. Eterno è soltanto questo sforzo.

Questa dimensione ingiustificata dell’esistenza non significativa accede al Senso originale del mondo grazie ad un’operazione di congiunzione dell’esistenza-al-senso e l’operatore è la funzione, il modo dell’artista o meglio del suo ritraimento a una dimensione recondita di legare e far risuonare l’essenza, aprendo orizzonti ben oltre le sue aspettative. È facile qui parafrasare Hegel, quando si mostra convinto del fatto che l’essenziale non sarebbe mai nell’oggetto quadro, ma solo in quello spazio relazionale che è familiare all’elemento della riflessione, ossia all’apparire, al soggetto.

Per questo specifico passaggio, riferendoci ancora alla ricerca di Tàpies e Kiefer, prolungando lo scarto della vita in un movimento di ripresa, nell’azione dell’arte come costruzione di un altro mondo rispetto al mondo ordinario, ci proponiamo una domanda che con il lavoro sulle delocazioni49 si è già posto Claudio Parmiggiani: «cosa possiamo costruire a partire dalle macerie, dalla polvere e dalla cenere?50»

Questa domanda apre una frattura nel pensiero tutto contemporaneo. Apre, nel solo porla, all’investigazione che le parole di questo scritto sembrano moltiplicarsi nel nulla, perché – come Paul Valéry pensava – destinate ad arrivare comunque in ritardo e insufficienti sull’evento della stessa opera, stante l’assoluta mancanza di direzione dell’arte.

L’opera d’arte è tale – affermava Heidegger – se sa aprire un mondo. Questa apertura si produce come una sorta di collasso del mondo già costituito. Perché l’opera svolga la sua funzione di apertura su di un altro mondo è necessario che venga sospeso il rapporto con il mondo già noto. Questa sospensione non è più il risultato di un atteggiamento metodico del pensiero – com’e ancora, cartesianamente, nell’epoche husserliana -, ma e piuttosto un urto, un incontro imprevisto, una contingenza che colpisce.

L’incontro con un’opera e, come scrive Tàpies, l’incontro con «un ferro che brucia la carne51». È l’incontro con un evento che lascia «un’impronta reale52». È ciò che Tàpies definisce come funzione paradossalmente pedagogica dell’opera: poter condurre il fruitore «al di là dell’ultima porta». È solo in questo modo che si legge la sua insistenza sul valore sociale dell’opera: «risvegliare dal sonno, produrre l’incontro con il reale, produrre nel soggetto uno choc che rompa il legame abitudinario col suo proprio mondo53». Per questo Tàpies può affermare che il valore dell’opera d’arte in sé e niente poiché un’opera se e tale appare piuttosto come un trampolino, un’apertura nuova, un’apertura verso l’incontro col reale54.

Con una formula molto rapida, la matericità di Tàpies e di Kiefer è un’arte che continua i suoi effetti come un proiettile. Un’arte che ha la forza traumatica di una crivellatura del significante. Un significante che agisce nello spettatore marchiandolo a fuoco. Che tocca le viscere dello spettatore. Che va oltre a saper comprendere l’invisibile, nella compartecipazione al visibile. E la sua forza appunto è perché smaschera l’inganno dell’integrità o dell’interezza. Laddove, nella vita reale, tutti noi crediamo di avere a che fare con positività da un lato e negatività dall’altro. Con quel che esiste e con quel che ancora non esiste o non esiste più. Crediamo di poterci muovere scegliendo il positivo o negativo, e di poterci disinteressare, di volta in volta, o dell’uno o dell’altro. Ma la loro arte ci mostra l’assurdità di una tale convinzione. Ci mostra come stanno veramente le cose, più reali di certi fatti scientificamente dimostrati.

Qui l’opera d’arte è qualcosa che contribuisce a disegnare configurazioni nuove del visibile, del dicibile e del pensabile, scuotendo come l’incendio o come i colpi di mazza che intervengono a segnare il passaggio dal quadro canonico della realtà all’esperienza traumatica del reale che ci sveglia, ci scuote, ci fa aprire gli occhi. In grado di agire sull’individuo più di quel kantiano giudizio riflettente, verso una elevazione dal banale alienante e di conseguenza verso un nuovo paesaggio del possibile.

«Con la loro teatralità – scrive Giuseppe di Giacomo – la loro monumentalità, con l’aggressività della loro materialità e la violenza del trattamento di cui le loro materie portano spesso la traccia, è indubbio che le opere di Tàpies e Kiefer si impongono fisicamente agli spettatori, provocando uno choc, ed è proprio a partire da questo choc che queste opere mostrano la loro dimensione auratica55».

Atti creativi in cui si iscrivono cicatrici indimenticabili, per costruire modi di vita possibili con la luminosità e la risolutezza di una folgorazione. Ossia l’intervento dirompente, irrompente, esplosivo, inesorabile per ri-apprendere la vita di nuovo, nel bisogno che il caos si trasformi in kósmos e faccia di ogni spettatore un creatore che ci parli di ciò che ciascuno è: assolutamente individuale ed assolutamente universale nella semplicità del fare presente l’esperienza quotidiana.

E a palpitare e a vivere, a risuonare come origine nei dispositivi dell’artista catalano e tedesco è sempre e solamente la materia; ovvero le sue tensioni e le sue impossibili (in quanto assolute) contrapposizioni che i nostri artisti plasmano in virtù di un fare mai disgiungibile da un non meno decisivo dis-fare.

Ecco la determinazione per cui l’arte di Tàpies e kiefer è anche affidabile custode rispetto alle infinite e ossessive domande della filosofia il cui rendere esplicito il pensiero che contiene ucciderebbe la stessa arte. Per questo la filosofia è destinata a fare la fine di Orfeo, condannato a perdere la propria Euridice, che, se illuminata dallo sguardo della conoscenza viene resa impossibile e muore. L’arte allude al manifestarsi di quel che non vuole essere conosciuto; per questo teme chiunque si proponga di conoscerla o spiegarla, o di renderne ragione.

Perciò Tàpies e Kiefer non accetteranno mai di venire qualificati come artisti semplicemente concettuali; la loro è una lotta fatta di carne e sangue e la stessa materia di scarto del reale ora attivata, fecondata dal processo di senso degli artisti si è trasformata in resto. Dove nel nostro tentativo di decifrare il concetto di resto, osserviamo che il resto è, da una parte, qualcosa che si eredita (dalla vita), dall’altra il prodotto distinto dell’arte che provoca una riscrittura, una ri-segnatura, una re-impressione.

Il resto: una lotta faticosa, bagnata dal sudore quella che i nostri artisti ingaggiano senza esclusione di colpi con la forma; per distruggerla e costruirla in-uno. Per mostrare che non è mai ancora quel che deve, ma non può ancora essere; vale a dire: manifestazione dell’opposizione assoluta cui si vorrebbe dar voce senza riuscirvi. Anzi, sempre anche riuscendovi proprio nel non riuscirci. In questo fare paradossale del processo – che distrugge mentre crea, e crea mentre distrugge – rendendo l’immagine, la rappresentazione impossibile, si risalta il valore dell’esperienza come verità nell’atto stesso con cui rende evidente l’impossibilità del tutto.

Con questo passaggio fondamentale è tempo di rientrare nei diversi passi sulla verità che abbiamo disseminato fin qui e si può, quindi, con la cautela che deve essere esercitata, osservare come Tàpies e Kiefer provano a realizzare la verità nell’arte (azione che ha a che fare con il reale). Poiché il problema statutario dell’arte non è dire la verità, ma fare la verità, in un atto alternativo alla realtà, dove trasformare ciò che è già avvenuto nella vita, per restituirlo a nuova vita.

Comprendiamo, dunque, sempre più il valore straordinario di artisti-intellettuali, come Tàpies e Kiefer di una vita interiore di eccezionale ricchezza che hanno trasformato l’emergenza di tracce della vita nella propria firma, nel proprio geroglifico. Ora le loro opere assicurano l’andirivieni tra spirituale e temporale, rinnovando, ancora una volta, quel movimento gravitazionale che domina i loro dispositivi. I loro quadri sono nuove rovine, nuove macerie, nuova polvere, nuova cenere che non smette più di bruciare come direbbe Jacques Derrida in un illuminante saggio56. Insomma, è solo dalle macerie prodotte da tale distruzione che possono generarsi delle parole nuove, nuovi spazi e nuovi rapporti, capaci di modellare la vera realtà; l’unica solida, cui ci si potrà sempre ancorare in caso di naufragio.

Derrida definiva la cenere come l’unico elemento che resta anche quando non resta. E Benjamin descriveva l’opera d’arte come un rogo, un rogo che, finito di bruciare, continua a bruciare nella cenere. La cenere dell’opera d’arte in fondo è il fatto che l’opera, pur dissolvendosi, lascia una traccia, lascia un resto appunto, continua a bruciare. L’equivalente di quel principio di vita che Goethe ricavava dall’osservazione delle farfalle che si gettavano nella fiamma: «Muori e diventa!57».

Per sospendere qui al momento la nostra riflessione-cammino in divenire potremmo usare la lucida intuizione di Anselm Kiefer che nell’unione perfetta del materiale e lo spirituale, anche nelle stesse espressioni all’apparenza rudimentali, suggerisce di significare che il flagrare dell’arte è entelechia58: termine aristotelico per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado dello sviluppo (nel con-senso).

Ma se del caso, dobbiamo porci forse ancora una domanda: al contrario della esibizione ostentata, provocatoria di cui si nutre gran parte dell’arte contemporanea, forse in un tempo come il nostro per ritrovare la dimensione stuporosa, luminosa dell’emozione estetica come entelechia bisognerebbe nascondere non mostrare l’opera d’arte. Seppellire non esibire, secretare non manifestare.

L’inesauribilità del semioforo contemporaneo, nel dirla alla Pomian59, per sopravvivere ha ancor più bisogno di levitare nel muto fervore del tono di Braque60, obliato dai riflettori, dal circo mediatico.

 

Ps.

Tuttavia, anche la presente declamata – spero – (d)efficienza esplicativa compromette proprio la possibilità di comprendere il senso e l’origine delle opere d’arte di Tàpies e Kiefer, qui ridotti alla stregua di un qualunque oggetto. Da qui la sincera consapevolezza dell’insufficienza (non della falsità) tanto di questo scritto, quanto della critica, della storia dell’arte di riferimento, scegliendo di affidare il più possibile alle parole degli stessi artisti, che si rivelano più probanti degli strumenti oggettivanti di cui fa mostra, pur nella propria impotenza, questo scritto.

 

Note finali __________________________________________________________________

  1. Giuseppe di Giacomo, Una Pittura Filosofica, Mimesis Edizioni, Fano, 2016, pp. 9
  2. Th. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 2009
  3. Tàpies, La pratica dell’Arte, cit. p.121
  4. Giuseppe di Giacomo, Una Pittura Filosofica, cit. pag. 165
  5. Tàpies, La pratica dell’Arte, cit. p.189
  6. Idem, p. 88
  7. Idem, p. 190
  8. Idem, p. 211
  9. Idem, p. 270
  10. Tapies, Autobiografia, cit., p.234.
  11. Giuseppe di Giacomo, Una Pittura Filosofica, cit. pag. 61
  12. Idem, cit. pag. 20
  13. Il 26 novembre 2014 l’Università di Torino ha conferito a Anselm Kieferla laurea honoris causa in Filosofia. Il testo integrale della sua lectio magistralis, da cui è tratto il brano riportato, si può leggere su Artribune del 4 dicembre 2014, nella traduzione di traduzione di Marco Enrico Giacomelli.
  14. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p.187, Bernd Heinrich Wilhelm von Kleist è stato un drammaturgo, poeta e scrittore tedesco. A lui è intitolato il prestigioso premio Kleist per la letteratura tedesca.
  15. Anselm Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano, 2018
  16. Ivi, cit. p.20
  17. Ivi, cit.
  18. In tali opere si ritrovano i fondamentali concetti benjaminiani della teoria della rovina e dell’allegoria barocca presenti nell’Origine del dramma barocco tedesco, condividendo proprio l’idea di una desacralizzazione del mondo.
  19. Intervista di Artribune dell’8/04/2022
  20. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p.32
  21. Ivi, cit. pp. 50-51
  22. Ivi, cit. pp. 128-132
  23. Kiefer, in conversation with Klaus Dermutz, trad. di T. Lewis, London – New York – Calcutta 2019, p. 190
  24. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p.36
  25. Intervista Artribune dell’8/04/2022
  26. Intervista Il Mattino di Padova del 26/02/2018
  27. Martin Heidegger, L’ essenza della verità, Adelphi, 1997
  28. Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione, Cronopio, 2009
  29. Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso, il Saggiatore, Milano, 2009, cit. p.37-38
  30. Dario Evola, La funzione dell’arte, Mimesis, Milano, 2018, p. 109
  31. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p. 39
  32. Kiefer, Dankesrede, in Friednspreis de Deutschen Buchhandels 2008, Frankfurt am Main 2008, pp. 59-72
  33. La prima occorrenza del verbo con cui la lingua greca esprime l’attività di pensare – noein – significhi fiutare (al punto che il nous o ‘intelletto’ consisterebbe nel porsi al seguito di qualcosa fiutandone la traccia)
  34. Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 2015
  35. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p. 33
  36. Tapies, Communication sur le mur, cit., p.210
  37. Ejzenstein, S.M., La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1984, rimandiamo in particolare al saggio introduttivo di p. montani.
  38. Jacques Rancière, Lo spettatore emancipato, 2008
  39. …dove la natura non è guardata, ma letta, studiata, compresa, insomma tutto ciò che implica una intenzionalità pittorica nello sguardo… Dario Evola, La funzione dell’arte, Mimesis, Milano, 2018, cit. p. 164,
  40. …Emilio Garroni parlava di uno sguardo-attraverso, uno sguardo come pensiero prodotto dall’estetica. Sottolineava Garroni l’uso del trattino come guardare dentro un filtro all’interno del filtro”. Un guardare che implica uno sguardo differente, nel senso letterale del termine, che porta verso qualcosa di altro, verso un possibile, recuperando appieno il senso kentiano della funzione artistica come occasione di pensiero… Dario Evola, La funzione dell’arte, Mimesis, Milano, 2018, cit. p. 239,
  41. Fédier, Beaufret, Jean (1907-1982), in P. Arjakovsky- F. Fédier – H. France-Lanord (dir.), Le Dictionnaire Martin Heidegger: Vocabulaire polyphonique de sa pensée, les Éditions du Cerf, Paris 2013, p. 162-164
  42. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p.
  43. Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla, Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, 2014, Cit. p. 169
  44. (Quaderno 264, 1963) A. Emo, In principio era l’immagine, a cura di M. Donà, R. Gasparotti, R. Toffolo, Milano 2019, p. 100
  45. Gyorgy Lukacs, Teoria del romanzo, SE, 2019
  46. Jacques Lacan (1901-1981) è stato uno psicoanalista, psichiatra e filosofo francese. Figura importante e controversa all’interno del movimento psicanalitico, Lacan fu una delle personalità di spicco della corrente filosofico-antropologica strutturalista e post-strutturalista tra la fine degli anni cinquanta ed i primissimi anni ottanta, assieme a pensatori come Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Louis Althusser, Roland Barthes, Pierre Klossowski e Gilles Deleuze. Le sue idee innovative e non sempre condivise hanno esercitato una considerevole influenza sul successivo sviluppo della clinica psicoanalitica, della linguistica, della teoria critica, della critica cinematografica e, più in generale, della filosofia europea del XX secolo.
  47. FREUD, Il disagio nella civiltà, 1929
  48. Essere un artista significa fallire, come nessuno altro osa fallire. Occorre fare di questa sottomissione, di questa ammissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, un atto espressivo, anche se espressivo solo dellatto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo” (Three Dialogues with George Duthuit, in “Transition”)
  49. Claudio Parmiggiani ha prodotto le sue prime “Delocazioni” nel 1970, usando polvere, fumo, fuoco, fuliggine e cenere per fare impronte su carta e cartone, una tecnica che ha continuato a estrarre per recenti lavori su tavola che raffigurano forme di luce simili a velo, ombra e movimento. Nel suo collage, scultura, installazione e fotografia, Parmiggiani esplora modi di creare e manipolare immagini e oggetti, mostrando l’influenza di Giorgio Morandi, il cui studio ha frequentato alla fine degli anni ’50, così come Marcel Duchamp e Piero Manzoni.
  50. Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le Lettere, Firenze, 2010
  51. Tàpies, La pratica dell’Arte, cit. p.106
  52. Idem, cit. p. 196
  53. Idem, cit. p. 76
  54. Tàpies, Declarations, cit. p. 93. In questo senso Tàpies può scrivere che, in generale, la spinta alla creazione artistica rivela “il desiderio di un’altra forma d’essere”. Idem., p.77.
  55. Giuseppe di Giacomo, Una Pittura Filosofica, cit. p. 25
  56. Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE
  57. Goethe 1819, trad. it. P. 49: “Vieni a volo inebriata, / e smaniosa di luce, alla fine, / farfalla, ti sei bruciata. (…) //E finché non hai conquistato/ questo: muori e diventa!,/tu sei solo un ospite opaco / su questa oscura terra.”
  58. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit. p. 21
  59. Pomian, K. Collezione, ad vocem in Enciclopedia Iii, Einaudi, Torino, 1978, p. 330-364
  60. Georges Braque, Il muto fervore, Morcelliana, 2017

 

5. Bibliografia________________________________________________________

Dario Evola, La funzione moderna dell’arte, Mimesis, Milano, 2018
Giuseppe di Giacomo, Una Pittura Filosofica, Mimesis Edizioni, Fano, 2016
Antoni Tàpies, La pratica dell’Arte, Edizioni Dedalo
Antoni Tapies, Autobiografia, Marsilio, Venezia, 1982
Anselm Kiefer, L’Arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano, 2018
Anselm Kiefer, Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, Marsilio Arte, 2022
Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 2015
Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso, il Saggiatore, Milano, 2009
Jean-Luc Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995
Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, 2014
Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le Lettere, Firenze, 2010
Claudio Parmiggiani, La chambre des amours de la Villa Médicis, Silvana Editoriale, Milano, 2015
Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE, Milano, 2000
Georges Braque, Il muto fervore, Morcelliana, 2017
Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1984
Martin Heidegger, L’ essenza della verità, Adelphi, 1997
Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione, Cronopio, 2009
Jacques Rancière, Lo spettatore emancipato, Derive Approdi, 2022

 

 

 

 

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